martedì 16 luglio 2013

FAVOLE PERIODICHE. PARTE V

Lo scorso mese abbiamo parlato di elementi chimici legati al potere, ovvio quindi aver preso in esame elementi come l’oro ed il platino. Tuttavia, se è pacifico mettere in relazione il possesso dell’oro o del platino con il potere terreno, un tempo un altro elemento irradiava una potenza addirittura celeste:  si tratta del ferro.
In effetti i pezzi di questo metallo puro che cadevano dal cielo sottoforma di meteoriti erano visti come doni ultraterreni ed esercitavano un immediato fascino sacrale. Dato che a farli precipitare sulla terra era stata in apparenza soltanto la volontà divina, questi aeroliti rappresentavano la realtà ultraterrena meglio di quanto potesse fare qualunque materiale terrestre o qualsiasi artefatto santificato dall’uomo. L’Hayden Planetarium dell’American Museum of Natural History di New York ospita alcuni dei più grandi meteoriti di ferro mai rinvenuti: il Willamette per esempio, precipitato nelle foreste dell’Oregon, è un blocco di colore nero ed argenteo che pesa 15 tonnellate ed ha le dimensioni di un’auto di piccole dimensioni. E’ composto quasi interamente di metallo puro (ferro con una bassa percentuale di nichel) reso lucido dai visitatori che hanno continuato a toccarlo in un secolo di esposizione al pubblico.
Prima della scoperta della possibilità di estrarre il ferro anche dai minerali terrestri, l’umanità vide per molto tempo in questi blocchi piovuti dal cielo l’unica fonte del metallo. La caduta di un meteorite, tuttavia, è un evento raro e pertanto le civiltà antiche lo consideravano spesso più prezioso dell’oro, a prescindere dalla sua utilità. Alcuni beduini ritenevano altresì che un uomo armato di spada di ferro meteoritico diventasse invulnerabile e fosse in grado di battere chiunque.
Poi circa cinquemila anni fa gli uomini, presumibilmente in Mesopotamia, impararono a fondere il ferro da comuni minerali terrestri e con il tempo la deferenza verso questi oggetti celesti lasciò addirittura il posto all’incredulità. Nel XIX secolo persino le società più acculturate stentavano infatti a credere che pezzi di metallo puro potessero venire giù in un’unica occasione dal cielo. Solo in seguito si diffusero nuove tecniche di analisi che permisero di confermare la loro natura extraterrestre. In effetti i meteoriti ferrosi contengono, a differenza di quanto si verifica nei minerali terrestri, una piccola percentuale di nichel, si tratta in pratica di una specie di acciaio inossidabile. Ecco allora che i beduini nel considerare le spade di ferro meteoritico superiori non erano tanto lontani dalla realtà, anche se per motivi decisamente diversi. Per quanto sia raro che la scienza si trovi a giustificare il contenuto di una qualunque superstizione, questo nel caso del ferro è accaduto più volte.
Oggi comunque l’immagine del ferro è associata prevalentemente ai successi ingegneristici della rivoluzione industriale. L’espressione più esorbitante e gioiosa della nuova età del ferro fu come dice la parola stessa la ferrovia, un’innovazione il cui debito rispetto a questo metallo è registrato nella parola (via di ferro) in quasi tutte le lingue. Grazie alla strada ferrata in breve tempo questo elemento divenne un simbolo di potere, magari meno importante ma più visibile di quanto fosse mai stato l’oro.
Un po’ più sfortunata, si fa per dire, è stata invece la parabola del mercurio. Conosciuto forse da 5000 anni il mercurio è sempre stato celebrato per come riunisce in sé, in modo unico, le proprietà dei liquidi e quelle dei metalli. Ma si tratta di una unicità che difficilmente poteva trovare degli impieghi. Ecco allora che per un materiale tanto speciale quanto inutile c’era una sola applicazione scontata: quella nei riti sacri.
Storicamente il mercurio ha trovato la sua principale area di utilizzo in Cina, i cinesi potevano infatti ricavare facilmente il mercurio metallico dagli abbondanti giacimenti di cinabro presenti nel loro territorio. La leggenda narra che il primo imperatore cinese Qin Shi Huang, che unificò la Cina nel 221 a.C., sia stato sepolto sotto un tumulo verdeggiante nei pressi di Xi’an, l’antica capitale. Secondo lo storico Sima Qian l’imperatore sarebbe stato deposto in una camera di bronzo rivestita di gioielli e percorsa da canali di mercurio. Quando nel 1974 cominciò ad essere portato alla luce l’ormai celebre esercito di terracotta, formato da centinaia di statue a grandezza naturale e parte integrante del complesso funerario, si ipotizzò che una determinata altura situata a circa un chilometro a ovest potesse nascondere la tomba dell’imperatore. Il tumulo non è stato ancora toccato per paura che un intervento possa danneggiare ciò che contiene, non ultimi i leggendari fiumi di mercurio. Gli scienziati hanno condotto diverse analisi non distruttive sul sito, tra cui l’esame chimico di diversi campioni del suolo, che nelle immediate vicinanze del tumulo hanno in effetti evidenziato livelli di mercurio di gran lunga superiori alla norma.
In generale le pozze ornamentali di mercurio erano diffuse non solo in Cina, ma anche tra i ricchi musulmani e ci sono prove che venivano usate anche nell’America precolombiana; prima della scoperta della sua velenosità era naturale che, nei posti dove era disponibile in abbondanza, il liquido venisse sfruttato per piacevoli effetti che era in grado di produrre fluendo, gocciolando, riflettendo la luce.
Tuttavia il mercurio, considerato nell’antichità prevalentemente come un prodigio mistico e simbolo di potere, ha trovato con il tempo un’ampia gamma di impieghi che mettono a frutto la sua eccezionale combinazione di proprietà:densità, fluidità e conduttività in primis. I suoi composti sono stati usati come pigmenti e cosmetici, come insetticidi e prodotti antialghe. In medicina sono stati usati come principi attivi di una infinità di sostanze, da quelle più potenti per contrastare la sifilide ai comuni lassativi, fino ai più diffusi antisettici: il calomelano ed il Mercurocromo per tutti.
Una volta stabilita però negli ultimi anni la pericolosità dei vapori di mercurio, la produzione di quest’ultimo è stata bloccata alla fonte. Pare quindi chiudersi così, per il momento, una storia lunghissima: una storia lunga 5000 anni.


                                                                                 Felice Marino
                                                                              aliama1@yahoo.it

venerdì 21 giugno 2013

FAVOLE PERIODICHE. PARTE IV

Alcuni elementi chimici sono da sempre sinonimo di potere, altri lo sono diventati. L’oro, per esempio, è da sempre associato ad un fascino senza tempo, ma cosa c’è di veramente speciale in questo metallo? Sicuramente l’unicità della combinazione del colore giallo con la lucentezza del metallo pare attrarci in maniera inesorabile. Allo stesso tempo questo colore e questa lucentezza sono qualcosa di duraturo; l’oro resiste infatti alla corrosione dell’aria, dell’acqua e di quasi tutti i reagenti chimici.
Plinio il Vecchio pensava che fosse questa sua speciale resistenza, e non il suo specifico colore, a spiegare il nostro amore per l’oro. Egli osservava come fosse l’unico metallo a non perdere niente a contatto con il fuoco ed è proprio questa durevolezza a far sì che l’oro sia stato sempre associato all’immortalità, nonché alla regalità ed al divino. L’oro è speciale anche a causa della sua densità, della sua malleabilità e duttilità, inoltre è l’unico metallo rinvenibile in natura allo stato elementare. Esso fu ben presto considerato di gran valore ed utilizzato prima in gioielleria e poi per la fabbricazione di monete in Europa, Asia ed Africa.
All’oro ed alla sua ricerca è legato il mito dei conquistadores spagnoli nel Nuovo Mondo, attraverso di loro la Spagna si appropriò di circa 200 tonnellate del metallo tra il 1520 ed il 1660 . A ben vedere questo meccanismo si fonda sul presupposto che ognuna delle parti in causa sia d’accordo nel considerare l’oro la sostanza  di maggior valore nota all’uomo. Il problema è che si tratta di una premessa infondata, non è un caso che ad esempio gli aztechi, gli inca e le altre popolazioni indigene del nuovo mondo facevano offerte auree ai loro dei, ma non usavano il metallo come moneta, il che gli attribuiva di fatto uno scarso valore commerciale.
Gli abitanti taìnos di Hispaniola, Cuba e Puerto Rico, attribuivano molta più importanza al guanìn, una lega di rame, argento ed oro, da cui erano attratti per il suo colore rossiccio tendente al viola e soprattutto per il suo odore peculiare. Al suo confronto l’oro puro, inodore e di colore giallo-bianco era privo di fascino.
L’ottone, una lega del vecchio mondo ignota alle società precolombiane, aveva le stesse qualità che rendevano attraente il guanìn. Portato in America dagli spagnoli, venne a sua volta visto come una sostanza proveniente dall’empireo e gli fu dato un nome che lo associava allo splendore di un cielo luminoso. L’immagine delle imbarcazioni spagnole che trasportano i due metalli gialli da una sponda all’altra dell’atlantico, al solo scopo di alimentare il gusto per il lusso di due società così incapaci di comprendersi a vicenda, non può che suscitare un’amara ironia.
Nonostante ciò, nei primi decenni del XX secolo, un nuovo metallo si è affermato come indice di preziosità: il platino. Esso è diventato il metallo prezioso preferito da coloro che ritengono l’argento troppo comune e l’oro troppo pacchiano per essere abbinato agli abiti da sera. Il platino è più pesante dell’argento e più trendy dell’oro, non abbaglia ma ha una lucentezza perlacea. Eppure il platino, anch’esso scarso nella crosta terrestre, è presente nel suolo circa dieci volte più dell’oro. Tuttavia nell’immaginario collettivo il platino è diventato il simbolo di un nuovo tipo di ricchezza che, a differenza di quella basata sull’oro, non è stata accumulata nel corso delle generazioni, ma viene acquisita da un momento all’altro grazie ad ardite speculazioni.
Il platino, riconosciuto come elemento dai chimici europei solo nel XVIII secolo, era già stato scoperto dalle popolazioni indigene sudamericane 2000 anni fa. Determinati a mettere le mani sull’oro, i conquistadores spagnoli non avevano inizialmente prestato attenzione alla grigia platina; alcune miniere di oro erano state addirittura abbandonate perché la presenza concomitante della platina rendeva antieconomico il loro sfruttamento. Inoltre gli spagnoli non erano in grado di emulare i fabbri del nuovo mondo e trasformare il metallo in una forma malleabile e utilizzabile per la produzione di oggetti.
La scoperta nel XIX secolo di nuovi giacimenti in Russia e Canada fece precipitare il prezzo del platino. Come mai allora, dopo aver raggiunto questo punto così basso, il platino ascese a tal punto da superare il prezzo dell’oro?
Le leggi del mercato ci dicono che se la risposta non si trova nella carenza di offerta, deve trovarsi nell’eccesso di domanda. A tal proposito l’espansione delle applicazioni tecniche, negli strumenti elettrici ed in molti processi chimici industriali dove il metallo serve come catalizzatore, è stata senza dubbio un fattore importante, ma più intreressante è quell’aumento nel valore percepito del platino che non è stato dovuto all’economia di mercato ma soltanto a ragioni di status sociale.
Nel 1898 Louis Cartier, succeduto a suo padre al vertice della loro gioielleria parigina, prima rese celebre il nome di famiglia diffondendo l’uso dell’orologio da polso al posto di quello da taschino e poi prese la decisione di utilizzare il platino ovunque fosse possibile al posto dell’argento e persino dell’oro. I gioielli bianchi come i diamanti, che venivano preferiti in abbinamento con gli abiti da sera, richiedevano idealmente una montatura incolore: l’oro stonava mentre l’argento tendeva ad ossidarsi. La lucentezza del platino al contrario, un po’ grigia rispetto a quella dell’oro o dell’argento, garantiva che l’attenzione si focalizzasse solo sulle gemme. L’innovazione introdotta da Cartier lanciò la moda del platino nell’alta gioielleria.
Da allora le cose sono rimaste così. Persino le case discografiche assegnano il disco d’oro a coloro che vendono 500.000 copie e quello di platino per un milione. In maniera analoga una carta di credito “oro” è al secondo posto rispetto ad una “platino”. La cosa divertente sta nel fatto che nessuna di queste due cose ha più a che fare con l’aspetto esteriore del platino in quanto metallo, né tantomeno con la sua rarità. Per la maggioranza di noi lo status del platino è il prodotto di una forma di snobismo più complessa: se lo percepiamo più desiderabile dell’oro, ciò dipende interamente da un’associazione inversa, ossia dal fatto che sappiamo che i dischi di platino si conquistano dopo quelli di oro e che è più difficile ottenere una carta platino che una oro. In un’epoca in cui tutto è marcato “oro” bisognava trovare qualcosa che godesse di maggior prestigio: quel qualcosa lo chiamiamo “platino”, almeno per il momento.
                                                                           Felice Marino
                                                                        aliama1@yahoo.it

domenica 12 maggio 2013

FAVOLE PERIODICHE. PARTE III

Il viaggio attraverso le “Favole Periodiche” di Hugh Aldersey-Williams continua con la sezione riguardante l’impatto che la chimica degli elementi ha avuto ed ha nell’ambito della Bellezza.
La scoperta del cadmio nei primi anni dell’Ottocento, ad opera di Friedrich Stromeyer, scatenò ad esempio la più grande rivoluzione mai vista nell’arte dei colori. In base alla quantità con cui erano presenti una serie di impurità, i pigmenti di solfato di cadmio potevano spaziare da un verde primavera leggermente sporco al giallo, all’arancione, fino ad un rosso vividissimo o a sue tonalità più profonde e ad un marrone scuro. In pratica l’intero spettro dell’arcobaleno, fatto salvo il blu.
Questi splendidi pigmenti diventarono uno strumento indispensabile per i pittori, che li preferirono a quelli che avevano utilizzato sino ad allora. Gli impressionisti, i post-impressionisti e soprattutto i fauvisti fecero buon uso del cadmio e dell’abbondanza di tonalità che esso garantiva o meglio, per essere più precisi, fu proprio il cadmio a rendere possibili queste successive ondate di rivoluzioni artistiche. L’avreste mai detto? Non appena venivano messe in commercio, le nuove tinte andavano a dar corpo ai tramonti gialli di Monet, agli interni arancioni di Van Gogh o allo Studio Rosso di Matisse.
Il blu per contro è sempre stato uno dei colori più difficili da ricavare dalla natura, tanto da sembrare spesso irraggiungibile come il cielo stesso. Per la realizzazione delle splendide vetrate della cattedrale di Saint-Denis di Parigi  l’abate Suger utilizzò un blu appena scoperto, di ottima qualità, ottenuto dai minerali di un metallo allora ancora sconosciuto: il cobalto. Fu proprio la disponibilità di questi eccezionali minerali a lanciare nel XII secolo la moda del blu. Seguendo l’esempio di Saint Denis, prima Chartres, quindi Le Mans e altri grandi chiese del periodo si gloriarono di preziose lastre di zaffiro nelle proprie finestre.
Ispirati dai vetrai, altri artigiani iniziarono poi a fare un uso più frequente del blu nella smaltatura, nella pittura, nella creazione di capi d’abbigliamento e nell’araldica. Il blu divenne il colore preferito per rappresentare le vesti della Vergine Maria e, attraverso questa associazione al sacro, esso venne adottato anche dalla monarchia francese.
Alla fine del secolo la richiesta di vetri blu da parte delle chiese era talmente elevata che, per soddisfarla, gli artigiani dovettero far ricorso ad altri blu, ottenuti dal rame e dal manganese; ma mentre questi ultimi , meno stabili, si sono deteriorati nel corso dei secoli, il blu cobalto di Saint Denis ha mantenuto l’intensità che aveva ai tempi di Suger, quella sua luminosa oscurità considerata da alcuni come la perfetta rappresentazione della presenza divina.
Sembra probabile che il blu di Suger provenisse, in un modo o nell’altro, da miniere persiane: i mercanti potrebbero cioè aver portato la smaltina grezza direttamente in Francia. L’ossido di cobalto, che viene ottenuto facendola bruciare all’aria aperta, ha a sua volta un aspetto grigiastro; lo smalto blu brillante si forma solo quando questo materiale viene fuso assieme al quarzo o alla potassa. Una nuova fonte europea fece ulteriormente crescere la popolarità del blu nel XVI secolo, quando si scoprì che anche le vecchie miniere d’argento sulle montagne fra la Sassonia e la Boemia erano ricche di smaltina. Con un po’ di fantasia possiamo immaginare una rete di sentieri polverosi del “blu” che partivano dalle miniere della Persia e della Sassonia e si dirigevano a est e a ovest, verso i grandi centri artistici del mondo.
Lo smalto presentava un’elevata compatibilità non solo con la fabbricazione del vetro ma anche con i materiali e i processi di lavorazione della ceramica: era infatti una delle poche sostanze che non perdeva il proprio colore durante la cottura, anzi quest’ultima lo rendeva addirittura più intenso. Il cobalto persiano, che era già utilizzato dai vetrai veneziani per le loro creazioni, fu lo stesso che fu utilizzato dai cinesi per la realizzazione delle porcellane Ming. L’arrivo di queste ultime in Europa attraverso il Portogallo, insieme alla concomitante disponibilità del cobalto sassone, contribuì in maniera determinante allo sviluppo ed alla diffusione sia delle famose ceramiche di Delft in Olanda che delle altrettanto famose porcellane di Meissen nella stessa Sassonia.
Molto singolare invece è stata l’epopea del cromo. In poco meno di mezzo secolo esso è passato per così dire dalla fama all’oblio. Gli oggetti cromati, come lampade e pezzi d’arredamento, fecero faville all’ Esposizione Internazionale delle Arti Decorative allestita a Parigi nel 1925, in seguito alla quale il metallo entrò a far parte della grammatica visiva dell’Art Déco. Era la lucentezza che ci voleva per tempi tanto instabili. Il nuovo affascinante metallo ebbe un ruolo centrale proprio nelle bizzarrie dell’Art Déco.
Fu solo dopo la seconda guerra mondiale che grazie alla possibilità di realizzare placcature durevoli, oltre che attraenti, il cromo venne utilizzato, non senza qualche stravaganza, per realizzare una sempre più ampia gamma di prodotti. In breve tempo il cromo diventò l’elemento metallico che meglio identificava la fiorente società dei consumi: irraggiava un senso di modernità, di fascino, di eccitazione, di velocità, ma anche di superficialità. Il cromo divenne rapidamente il biglietto da visita internazionale dell’opulenza americana.
Ciononostante, già a metà degli anni Settanta, il cromo si  trasformò rapidissimamente da elemento depositario di una sorta di fascino universale a materiale un po’ troppo appariscente, considerato addirittura pacchiano. Il cromo aveva perso la sua presa sull’immaginazione della gente, di chi nutriva ambizioni sociali, e la sua reputazione venne presto a cadere. Oggi il termine “cromo” è quasi un insulto,  spesso infatti lo si usa per riferirsi a quelle opere che insistono troppo sugli effetti speciali.



                                                                         Felice Marino
                                                                      aliama1@yahoo.it

sabato 16 marzo 2013

FAVOLE PERIODICHE. PARTE II

Dopo aver parlato di stagno e piombo, continuiamo a viaggiare nella chimica degli elementi attraverso le “Favole Periodiche” di Hugh Aldersey-Williams.
Restando nella sezione relativa ad Arti e Mestieri non si può non parlare dell’argento. L’argento, più di ogni altro metallo, è legato alla purezza ed in particolare alla verginità e ciò non è dovuto solo alla sua bianca lucentezza, ma al fatto che questa lucentezza ha una propensione quasi umana ad offuscarsi ed annerirsi. Se l’Oro rappresenta il sole e la perfezione e viene associato all’immortalità, l’argento, per contro, simboleggia la luna e l’incompletezza per il fatto che non è ancora oro. Tant’è vero che i primi alchimisti ritenevano che per completare la transizione da argento ad oro ci volesse solo un po’ di giallo in più, che provarono a trasferire nei modi più bizzarri, dallo zafferano, dai tuorli d’uovo o addirittura dall’urina.
Oggi è noto che l’argento non si ossida facilmente e che la sua tendenza ad annerirsi, che richiede di contro una continua lucidatura, è dovuta alla formazione di una patina superficiale di solfuro. Questa si forma in particolare quando un oggetto d’argento ben lucidato viene esposto in ambienti in cui l’aria è ricca di zolfo e cioè in presenza di candele o di fuochi. La facilità del processo di trasformazione chimica tramite cui il metallo si ritrova coperto da una pellicola nerastra, e lo sforzo fisico richiesto dal rituale di lucidatura per farlo tornare a brillare, parlano di morte e resurrezione, di corruzione e redenzione. C’è una macchia nell’argento, una sorta di peccato originale.
Un’altra caratteristica dell’argento è la capacità della sua superficie tirata a lucido di riflettere la luce così bene da consentire ad una persona di specchiarvisi. Nel tardo Medioevo durante i riti liturgici  l’assemblea dei fedeli iniziò a prender parte alla Comunione, prima riservata al solo sacerdote. E allora, al culmine della messa, i fedeli potevano vedere il loro volto riflesso nel virtuoso argento degli oggetti sacri, un’occasione non frequente in un’epoca in cui gli specchi non erano ancora diffusi. Questa antica qualità, unita a quella di annerirsi, ha prodotto metaforicamente qualcosa di inaspettato nel mondo contemporaneo: come il riflesso di uno specchio, infatti, anche la fotografia è un’immagine ottica catturata nell’argento. La creazione delle immagini fotografiche in bianco e nero dipende infatti dalla trasformazione chimica dei sali d’argento in argento metallico grazie all’azione della luce. E questa volta, ironia della sorte, è l’argento puro ad apparire nero.
In generale comunque l’argento ha goduto di una particolare importanza agli inizi del XX secolo, durante gli anni della Belle Epoque, quando anche le famiglie di poche pretese potevano permettersi l’argenteria, grazie all’espansione dell’attività mineraria nelle Americhe. L’Argentina, l’unico stato al mondo ad aver preso il nome da un elemento chimico, è stato per un breve periodo il decimo paese più ricco al mondo. Oggi l’argento non ha più il prestigio sociale di cui godeva una volta ed il suo prezzo è crollato, tuttavia il suo valore simbolico, per quanto ciò possa apparire sorprendente, è rimasto intatto.
Tra i metalli che hanno influenzato ed influenzano la nostra vita va sicuramente annoverato anche il rame ed il suo straordinario numero di proprietà.
La più evidente è costituita dal suo colore: il rame infatti è l’unico metallo rosso, cosa che lo pone in relazione con l’oro, unico altro metallo colorato. La prima delle sue proprietà utile per essere sfruttata fu la malleabilità. Gli antichi egiziani lo utilizzavano per fabbricare spade ed elmi, ma anche tubi di scolo. Essendo abbondante, oltre che malleabile, il rame si prestava meglio dell’oro e dell’argento ad essere impiegato per la produzione di monete, pur suscitando a volte il malcontento delle popolazioni tra cui venivano fatte circolare, data l’evidente disparità tra il loro valore nominale e quello reale.
La seconda proprietà ad essere riconosciuta e sfruttata fu la facilità con cui il rame conduce sia il calore sia l’elettricità. All’inizio del XIX secolo Paul Revere conquistò la fama grazie alle sue pentole dal fondo in rame. In quello stesso periodo gli scienziati che studiavano l’elettricità scoprirono che questo metallo la conduceva meglio di qualunque altro materiale, eccettuato l’argento.
Ma il contributo più grande del rame alla trasformazione del mondo è dovuto a una sua ultima proprietà: la duttilità. Esso infatti non solo può essere ridotto in fogli sottili, ma anche in fili in grado di condurre l’elettricità, cosa che ha permesso la creazione di quella che possiamo definire la prima rete mondiale. Il cablaggio del mondo è stato possibile grazie a una serie di innovazioni chiave avvenute in un lasso di tempo relativamente breve: la creazione di batterie in grado di generare una corrente costante, l’introduzione di galvanometri capaci di cogliere un segnale elettrico e mostrarlo attraverso lo spostamento di una lancetta, la messa a punto di procedure di raffinazione tali da garantire al rame quell’elevato grado di purezza necessario per condurre l’elettricità con efficienza, nonchè la scoperta delle proprietà isolanti della guttaperca, una resina gommosa ottenuta dalle sapotiglie malesi.
Oggi il mondo è avvolto in un bozzolo di fili di rame e, nonostante l’avvento delle fibre ottiche, dei satelliti e del wi-fi, più della metà del metallo estratto dalle miniere viene ancora trasformato in cavi o comunque impiegato in applicazioni legate all’elettricità o alle comunicazioni. Pur rimanendo perlopiù nascosto alla vista, il rame è di fatto diventato un simbolo di civiltà.

                                                                            Felice Marino
                                                                        aliama1@yahoo.it

domenica 10 febbraio 2013

FAVOLE PERIODICHE - PARTE I

La tavola periodica degli elementi di Mendeleev è per gli studenti che hanno scelto un indirizzo scientifico sinonimo di chimica, per la gente comune invece di angusti laboratori pieni di ampolle fumanti. In generale, quando si parla di chimica, è difficile che la mente si predisponga a voli pindarici o che si percepiscano gli elementi come vere e proprie narrazioni di storie culturali.
L’oro (raro ed incorruttibile) significa qualcosa, l’argento qualcos’altro, il piombo qualcos’altro ancora. Gli elementi scoperti durante l’Illuminismo sono basati sulla mitologia classica: titanio, palladio, uranio. Quelli trovati nel XIX secolo mettono invece in evidenza l’appartenenza geografica dello scopritore: germanio, scandio, polonio. In definitiva gli elementi appartengono alla nostra cultura e non c’è da sorprendersi, essi sono gli ingredienti di ogni cosa.
Nel suo “Favole periodiche” Hugh Aldersey-Williams, chimico dagli spiccati interessi artistici e letterari, ci guida alla conoscenza degli  elementi e attraverso di essi indaga sui minimi ed i grandi eventi del passato. Nella sezione dedicata ad Arti e Mestieri l’autore comincia col trattare dello Stagno, “il metallo amico”, noto per essere con il Rame uno dei due componenti del Bronzo ma anche per la sua maneggevolezza. E’ lucente, brillante e con una temperatura di fusione molto bassa, abbastanza forte da permettere la realizzazione di oggetti, ma anche sufficientemente tenero da permettere che questi articoli possano essere plasmati usando solo il martello.
La civiltà fenicia fu in buona parte la civiltà dello Stagno. Essi lo commerciarono e navigarono in lungo e largo alla sua ricerca, la città-stato fenicia di Cartagine ne gestì gli approvvigionamenti da Occidente, dalle leggendarie isole Cassiteridi, le isole dello Stagno citate anche da Plinio il Vecchio, enigma per gli studiosi moderni.
Lo Stagno può essere usato e gettato, ma è indistruttibile, come il soldatino di Stagno della fiaba di Andersen. Chiunque è in grado di trasformare un pezzo di Stagno in qualcosa di utile, i contadini vi ricavavano tanto gli ornamenti quanto gli utensili, tanto giocattoli quanto strumenti musicali. La sonorità dello Stagno è qualcosa di speciale, esso ha portato la sonorità nella vita domestica (era il metallo più usato per fabbricare gli utensili della vita domestica) ed ancora oggi è utilizzato come lega con il Piombo per le canne degli organi o  con il Rame per le campane. La tonalità migliore per le campane è notoriamente una lega Rame-Stagno (Bronzo) uniti in un rapporto tre, quattro ad uno, ma a questa lega corrisponde anche una grande fragilità. Sono state molte le campane a rompersi, la più nota è sicuramente la Liberty Bell custodita a Philadelphia. Essa si spaccò dal bordo alla parte centrale quando venne suonata la prima volta in occasione della Dichiarazione d’Indipendenza Americana.
Oggi, al contrario, lo Stagno è comunemente diventato metafora delle cose superficiali e di scarso valore, addirittura i piccoli tirannelli vengono nella cultura anglosassone definiti tin-pot (vasi di Stagno), ciò non rende evidentemente giustizia alla sua lunga e gloriosa storia.
Il Piombo è invece spesso l’elemento chimico associato più da vicino alla morte. Esso è sinonimo di gravità, sia fisica che intellettuale. Per preservare i corpi di Papi e di re venivano utilizzati sarcofaghi di piombo, nella tradizione era un modo per assicurarsi che l’anima non fuggisse. Non si corrode e protegge ciò che contiene poiché forma uno strato superficiale che blocca gli attacchi chimici. Il suo colore grigio-elefante che a malapena riflette la luce contribuisce a fare del Piombo il metallo più adatto a riti di morte e sepoltura, ma lo associa anche all’esoterismo in generale.
Nelle regioni dell’Europa centrale dove i minerali di Piombo sono abbondanti si è diffusa la pratica di predire il futuro lasciando cadere in acqua qualche goccia del metallo fuso. Esso si solidifica assumendo delle forme bizzarre dalle quali viene desunta la sorte dell’interessato. Un fiore è sinonimo di nuovi amici, una nave di un lungo viaggio, la forma di un maiale di prosperità. I tedeschi compiono questa cerimonia della colatura del Piombo (Bleigiessen) la vigilia di Capodanno.
Nelle applicazioni tradizionali di questo metallo, in realtà, è riassunta l’ambivalenza del genere umano. Di piombo sono i proiettili dei soldati ma anche i caratteri dei tipografi. Proiettili di varie foggie sono stati per secoli ottenuti con un meccanismo analogo, anche se in questo caso non lasciato al caso, dei Bleigiessen, allo stesso tempo fu grazie al Piombo che Gutenberg realizzò i caratteri mobili divenendo il padre della stampa.
Questo metallo riassume allo stesso tempo la creatività e la distruttività dell’uomo, ecco perché, forti di questo significato profondo e contraddittorio, molti artisti contemporanei lo hanno utilizzato per le loro opere. I più noti sono lo scultore britannico Antony Gormley e l’artista tedesco Anselm Kiefer. Celebre il bombardiere di piombo di Kiefer, denominato “Giasone”, realizzato nel 1989 ed esposto in Danimarca. Un aereo volutamente realizzato con il metallo più pesante, un aereo che promette voli di fantasia ma che evidentemente non potrà mai volare.
Il dualismo insito nel Piombo può essere metaforicamente ricercato in un’altra considerazione. Il Piombo, considerato nell’antichità il metallo da cui si originavano gli altri sette conosciuti, era il punto di partenza degli alchimisti nella loro ricerca dell’oro. Il Piombo è anche però il prodotto finale di molti processi di decadimento radioattivo, inclusi quelli degli elementi chiave dell’atomica, l’uranio ed il plutonio. Se nell’antica alchimia esso alludeva alla possibilità di un miglioramento dell’umanità, nella scienza moderna il Piombo lascia presagire anche l’eventualità di una sua violenta distruzione.


                                                                            Felice Marino
                                                                          aliama1@yahoo.it

venerdì 11 gennaio 2013

IL MANOSCRITTO

Può un libro cambiare la Storia? “Il Manoscritto” di Stephen Greenblatt, premio Pulitzer per la saggistica 2012, racconta il rinvenimento quasi fortuito  presso un monastero tedesco di un testo perduto, la cui riscoperta, secondo l’autore, potrebbe aver cambiato la storia della cultura europea. L’anno è il 1417, il monastero è quello di Fulda ed il testo il “De Rerum Natura” di Tito Lucrezio Caro.
Con una prosa leggera, che pare trasformare la Storia in un racconto avvincente, Greenblatt ci offre uno spaccato di un mondo lontano ed al contempo ci impone una riflessione sempre attuale. Spesso noi siamo portati a pensare alla realtà di oggi come alla conseguenza di una serie di  eventi più o meno noti, non prendiamo nemmeno in considerazione l’idea che in questa sequenza ci possano essere stati dei buchi, che ci siano dei tratti mancanti, magari semplicemente perché delle testimonianze si sono perse definitivamente.
Questo è particolarmente vero per quello che riguarda l’età classica. Nel passaggio dall’età classica a quella medioevale si sono infatti persi un numero rilevante di testi e con essi tanti autori e pensatori sono stati condannati  all’oblio per sempre. Quelli pervenuti, devono spesso la loro sopravvivenza all’opera di instancabili monaci amanuensi. Essi avevano nell’esercizio della lettura e della scrittura alcune delle loro regole, tuttavia, magari perché abbagliati da un gusto classico, non sempre erano capaci di cogliere l’essenza di quello che stavano trascrivendo. Non si spiega altrimenti la sopravvivenza presso un monastero, per quanto sperduto, di un’opera potenzialmente sovversiva come il “De Rerum Natura”.
A trovarlo, quasi per caso, fu l’umanista Poggio Bracciolini, cacciatore di libri e segretario apostolico di papa Baldassarre Cossa, deposto durante il concilio di Costanza del 1415, quello che di fatto pose fine allo scisma. Ordinando ad uno scrivano di farne una copia, Bracciolini si affrettò a salvare il libro dall’oblio in cui era caduto tra le mura del convento. Non sappiamo se avesse già intuito che, negli anni, il volume avrebbe contribuito a demolire il suo mondo.
In realtà il De Rerum Natura era oggetto di discussione anche nel mondo pagano, all’epoca della sua pubblicazione. Incredibilmente ne sono stati trovati e riconosciuti dei frammenti tra i numerosi rotoli rinvenuti nella villa dei Papiri di Ercolano, sepolta dall’eruzione del Vesuvio del 79 d.C., e che pare fosse di proprietà del potente politico romano Lucio Calpurnio Pisone.
Nella biblioteca del monastero di Fulda, tra messali, tomi teologici e manuali confessionali, il libro di Lucrezio era un intruso, una reliquia che aveva galleggiato fino a riva da un relitto lontano. A Ercolano, invece, era a casa propria. Il contenuto dei rotoli rinvenuti dimostra che la collezione della villa si concentrava proprio sulla scuola di pensiero di cui il De Rerum Natura è la più straordinaria espressione esistente: l’epicureismo.
La tesi filosofica, fondamentalmente “atomista”, secondo cui lo scopo supremo della vita è il piacere, sebbene definito in termini assai sobri, fu uno scandalo, sia per i pagani sia per i loro avversari, gli ebrei prima e i cristiani dopo. C’era infatti paura che la sublimazione del piacere e la fuga dal dolore fossero obiettivi allettanti e potessero fungere da principi organizzatori razionali della vita umana. Se così fosse stato, molti principi alternativi sanciti dalla tradizione come il sacrificio, l’ambizione, lo status sociale, la disciplina, la religiosità, sarebbero stati messi in discussione insieme alle istituzioni che servivano. Si provvide allora a banalizzare volontariamente la ricerca del piacere epicureo in un’indulgenza sensuale e grottesca verso se stessi, rappresentata dal perseguimento risoluto di sesso, potere, denaro o addirittura cibi bizzarri e costosi. In realtà il vero Epicuro, che viveva di formaggio, pane ed acqua, condusse un’esistenza più che tranquilla.
Dopo aver  ottenuto una copia, Bracciolini ricopiò a sua volta il testo e lo fece pervenire al suo grande amico umanista Niccolò Niccoli. L’opera iniziò così a circolare silenziosamente, prima a Firenze e poi altrove, contribuendo probabilmente ad accendere le polveri del Rinascimento italiano. Il materialismo lucreziano ispirò in seguito grandi autori europei come Shakespeare e Montaigne. Quest’ultimo approvava il disprezzo di Lucrezio per la moralità imposta, odiava intensamente le autopunizioni ascetiche e la violenza contro la carne, amava la libertà e l’appagamento interiore. Lucrezio, secondo Montaigne, era la guida più infallibile per comprendere la natura delle cose e per plasmare l’io affinchè vivesse la vita con piacere e affrontasse la morte con dignità.
Non mancarono numerosi tentativi di impedire la lettura nelle scuole del De Rerum Natura e di ricondurre Lucrezio al silenzio, ma il torchio da stampa aveva ormai reso molto più difficile uccidere i libri. Soffocare una serie di idee vitali per i nuovi progressi scientifici nel campo della fisica e dell’astronomia si rivelò ancora più arduo.
Le idee atomiste crearono le premesse per le grandi rivoluzioni culturali europee ma finirono anche nel testo della dichiarazione d’indipendenza americana. Il testo, influenzato da Thomas Jefferson, sottolineava la necessità di un governo che non garantisse solo la vita e la libertà dei cittadini, ma che promuovesse anche la ricerca della felicità. Ed in effetti pare che ad un corrispondente che gli chiese quale fosse la sua filosofia di vita Jefferson, che aveva collezionato almeno cinque versioni latine del De Rerum Natura, rispose: “Sono epicureo”.


                                                                         Felice Marino
                                                                      aliama1@yahoo.it

sabato 8 dicembre 2012

CONVERSAZIONI SULL'EDUCAZIONE

Anche questo mese ho scelto di occuparmi di una pubblicazione del sociologo polacco Zygmunt Bauman. Il recente testo  “Conversazioni sull’educazione” è una  raccolta epistolare tra Bauman e Riccardo Mazzeo, un intellettuale suo amico, che spazia su vari temi e che mi è parso un logico completamento delle tesi esposte nel già commentato “Modernità liquida”.
A proposito di scuola e di educazione Bauman utilizza la metafora dei missili intelligenti contrapponendoli ai più datati missili balistici. I primi, a differenza dei secondi, apprendono durante il percorso e la principale capacità di cui hanno bisogno è quella di imparare e di farlo rapidamente. Un apprendimento veloce, tuttavia, nasconde un’altra capacità meno visibile e cioè quella di dimenticare altrettanto velocemente ciò che si era appreso un attimo prima. Quello che i cervelli dei missili intelligenti non devono mai dimenticare è che la conoscenza che essi acquisiscono è in sommo grado revocabile e ciò che garantisce il successo consiste nell’accorgersi del momento in cui la conoscenza immagazzinata ha cessato di essere utile e deve essere gettata via, dimenticata e sostituita. E’ con l’ingresso nei tempi liquido-moderni che coloro che erano alle prese con l’apprendimento e la promozione dell’apprendimento hanno dovuto spostare la loro attenzione dai missili balistici, vale a dire l’antica saggezza ed il suo valore pragmatico, ai missili intelligenti. Se la vita premoderna era una quotidiana rappresentazione dell’infinita durata di qualunque cosa, la vita liquido-moderna è una quotidiana rappresentazione della fugacità e della transitorietà. In un mondo del genere si è costretti a prendere la vita un pezzetto alla volta, aspettandosi che ogni pezzetto sia diverso dal precedente e richieda conoscenza ed abilità differenti. Ora, poiché l’invariabile obiettivo dell’educazione era, è e rimarrà in ogni epoca la preparazione dei giovani alla vita nelle realtà a cui sono destinati ad accedere, oggi una scuola di qualità, “pratica”, non può che essere una scuola che diffonde apertura mentale non chiusura, qualità non quantità.
Non è un caso allora che tutti i principali eroi contemporanei, uomini dalle storie radiose che raccontano il passaggio dalla miseria alla ricchezza come Steve Jobs, Jack Dorsey o David Karp, siano senza eccezione uomini falliti sotto il profilo dell’istruzione che hanno accumulato fortune miliardarie grazie ad una singola idea ben scelta e ad un’opportunità fortunata.
Sono le persone con idee brillanti ed utili (leggasi: vendibili) che oggigiorno abitano le stanze dei bottoni. Le principali risorse di cui è fatto il capitale sono nell’era post-industriale la conoscenza, l’inventiva, l’immaginazione, la capacità di pensare ed il coraggio di pensare in modo differente. Nell’elenco dell’uno per cento degli americani più ricchi (avete letto bene, uno per cento) solo uno di essi appartiene all’impresa industriale; il resto sono finanzieri, avvocati, architetti, programmatori, scienziati, medici, stilisti ed ogni sorta di celebrità dello spettacolo, della televisione e dello sport.
Tutto in linea con la società dei consumatori, contrassegnata da una cultura “nuovista” che promuove il culto della novità e della scelta casuale, ma caratterizzata anche da una massa di informazioni strabordante: “Invece di ordinare la conoscenza in file armoniose, la società dell’informazione offre cascate di segni decontestualizzati più o meno casualmente connessi gli uni agli altri. Detto diversamente: quando quantità crescente di informazione vengono distribuite a velocità crescente, diventa sempre più difficile creare narrazioni, ordini, sequenze di sviluppo. I frammenti minacciano di diventare egemoni. Ciò ha serie conseguenze per i modi in cui ci colleghiamo alla conoscenza, al lavoro ed allo stile di vita in senso lato”.
La verità è che questa è la prima generazione  del dopoguerra che ha di fronte la prospettiva di una mobilità verso il basso. Non c’e’ nulla che abbia potuto prepararli all’arrivo del nuovo mondo duro, freddo e inospitale in cui i voti hanno perso il loro valore, i meriti guadagnati si sono svalutati. Essi si sono ritrovati a vivere in un mondo di lavori volatili e disoccupazione ostinata, di fugacità di prospettive e durevolezza di sconfitte, di speranze frustrate e di opportunità che brillano per la loro assenza. Per la prima volta, a memoria d’uomo, l’intera classe dei laureati si trova di fronte un’alta probabilità di svolgere lavori ad hoc, temporanei, part-time, pseudolavori non pagati di apprendistato ingannevolmente definiti di formazione, tutti considerevolmente al di sotto delle abilità da loro acquisite e delle loro aspettative.
Chiosa Bauman:” In una società capitalista come la nostra, preparata ed armata prima di tutto per la difesa e la preservazione dei privilegi esistenti e solo secondariamente (in modo infinitamente meno rispettato e praticato) al miglioramento delle condizioni di chi vive in uno stato di deprivazione, questa schiera di laureati con grandi obiettivi e piccoli mezzi non ha nessuno a cui rivolgersi per ottenere assistenza e rimedio”. Tutto ciò, unitamente al progressivo ed esponenziale aumento delle tasse universitarie, rischia inevitabilmente di decimare le schiere dei giovani che crescono nei miseri territori della deprivazione sociale e culturale e che ciò nondimeno non sono ancora domi e osano bussare con determinazione alle porte universitarie dell’opportunità. Le università rischiano sostanzialmente di abdicare al loro ruolo attribuito/preteso di promotrici della mobilità sociale. E’ un ritorno in grande stile delle divisioni di classe.
In questo contesto vale la pena allora citare il cupo avvertimento/premonizione di W. Cohan sul New York Times: “Una lezione che ci viene dalla recente sollevazione in Medio Oriente, specialmente in Egitto, è che un gruppo di persone con un’alta istruzione ma disoccupate, in sofferenza da un periodo cospicuo di tempo, possono catalizzare un cambiamento sociale di enorme portata”.
Buone feste a tutti

                                                                 Felice Marino
                                                              aliama1@yahoo.it