La subordinazione della politica alla rappresentazione televisiva
Il pericolo che io vedo non è tanto che la televisione faccia programmi inguardabili, quanto nel fatto che tutti guardano la televisione. E siccome non c’è mondo al di là della sua descrizione, la televisione non è un mezzo che rende pubblici dei fatti, ma la pubblicità che concede diventa il fine per cui i fatti accadono. L’informazione cessa di essere un resoconto per tradursi in una vera e propria costruzione dei fatti, e questo non nel senso che molti fatti del mondo non avrebbero rilevanza se i media non ce li proponessero, ma perché un enorme numero di azioni non verrebbero compiute se i mezzi di di comunicazione non ne dessero notizia. Oggi il mondo accade perché lo si comunica, e il mondo comunicato è l’unico che abitiamo.
Non più un mondo di fatti e poi d’informazione, ma un mondo di fatti per l’informazione. Solo il silenzio restituirebbe al mondo la sua genuinità. Ma questo non è più possibile. E così , quello che andava profilandosi sul registro innocente dell’informazione diventa il luogo eminente della costruzione del vero e del falso, non perché i mezzi di comunicazione mentono, ma perché nulla viene fatto se non per essere comunicato. Il mondo si risolve nella sua narrazione.
Gli effetti di questo risolvimento sono facilmente intuibili se appena volgiamo l’attenzione a quel gioco dei consensi che siamo soliti chiamare democrazia. Se infatti la realtà del mondo non è più discernibile dal racconto del mondo, il consenso non avviene più sulle cose, ma sulla descrizione delle cose, che ha preso il posto della realtà. Nella democrazia tutti possono dire la loro, cioè fare la loro descrizione del mondo. Ed è in questo senso che un tempo i partiti rappresentavano le diverse opinioni della gente, i sindacati rappresentavano i lavoratori, le associazioni industriali gli imprenditori; ora è la televisione a rappresentare tutte queste rappresentazioni; ed è in questa rappresentazione di secondo grado che si descrive il mondo e si costruisce il consenso.
Un consenso che non arriva alle cose, ma si arresta alla loro rappresentazione, in quel gioco di specchi dove il sondaggio dell’opinione pubblica è il sondaggio dell’efficienza persuasiva dei media, che prima creano l’opinione pubblica e poi sondano la loro creazione. A questo punto il mezzo, il medium, non è tanto la televisione, ma l’opinione pubblica ridotta a specchio di rifrazione del discorso televisivo in cui si celebra la descrizione del mondo.
In ciò nulla di nuovo. Anche la vita degli antichi o quella dei medioevali era lo specchio di rifrazione in cui si celebrava il discorso mitico o il discorso religioso; la novità è che nelle società antiche, dove si disponeva solo di piazze e di pulpiti, non era possibile raggiungere l’intero sociale, per cui restavano spazi per idee e discorsi differenti, da cui prendeva avvio la novità storica. Oggi questo spazio è praticamente abolito, e la novità storica, se vorrà esprimersi, dovrà prodursi in forme che al momento non si lasciano intravedere.
U. Galimberti