venerdì 30 dicembre 2011

L' IMPERATORE DEL MALE

La malattia del cancro è descritta da almeno quattromila anni e continua a rappresentare ai giorni d’oggi una delle più grandi piaghe per gli esseri viventi, si calcola che mediamente ogni anno circa otto milioni di persone in tutto il mondo ne muoiano.  “L’imperatore del male”, premio Pulitzer per la saggistica nel 2011, di Siddharta Mukherjee, ricercatore oncologo e docente alla Columbia University, è il racconto dell’epica lotta contro questa malattia. Si tratta di una guerra millenaria fatta di incessanti battaglie, piccole vittorie e grandi sconfitte, combattuta da medici ed eroi, da geni della ricerca ma soprattutto da gente comune.
Il cancro si avvia oggi a diventare rapidamente la prima causa di morte al mondo e questo tuttavia dipende prevalentemente da un progressivo aumento dell’età media e dell’aspettativa di vita. Infatti l’aumento dell’incidenza del cancro, in particolare di alcuni tipi di cancro, dipende dal fatto che nelle società antiche le persone non vivevano abbastanza a lungo per ammalarsene. La civilizzazione più che causare il cancro lo ha reso più visibile, mentre sicuramente ha inciso sul cambiamento dello spettro dei tumori aumentando l’incidenza di alcuni, riducendo l’incidenza di altri. Il cancro allo stomaco, ad esempio, è stato sicuramente molto più diffuso in certe fasce di popolazione fino alla fine del diciannovesimo secolo, probabilmente a causa della presenza di sostanze cancerogene nei conservanti. Al contrario l’incidenza di cancro ai polmoni è drammaticamente aumentata a partire dagli anni Cinquanta come risultato dell’inquinamento atmosferico e della diffusione delle sigarette all’inizio del ventesimo secolo, e deve ancora raggiungere il picco più alto.
In realtà il cancro non è una malattia, ma un complesso di malattie che hanno un’origine e spesso manifestazioni diverse. Le chiamiamo tutte “cancro” perché hanno in comune una caratteristica fondamentale: una crescita cellulare abnorme e la capacità di queste cellule di migrare producendo delle metastasi.
All’inizio del secolo scorso l’approccio al cancro era praticamente solo chirurgico. I sostenitori della chirurgia radicale, molto in voga per un lungo periodo, si erano illusi del fatto che per evitare le metastasi o le recidive fosse necessario asportare chirurgicamente i tumori ben al di là della loro estensione, sottoponendo i pazienti ad interventi tanto inutili quanto macabri e fisicamente devastanti. Successivamente i pionieri della moderna chemioterapia ( terapia a base di sostanze chimiche ), nata quasi casualmente a partire dalle centinaia di sostanze chimiche sviluppate inizialmente dall’industria tessile per colorare i tessuti di cotone, credettero, a partire da Sidney Farber in poi, alla possibilità  che esistesse una sorta di pallottola magica nel trattamento del cancro, costituita da uno o più farmaci somministrati contemporaneamente. Ciò li espose, fatto salvo piccoli successi, a numerosi e scoraggianti fallimenti. Questi insuccessi avevano la loro origine tanto nella forza e nell’eclettismo del nemico quanto in una non conoscenza dello stesso. Si procedeva sostanzialmente alla cieca e per tentativi.
Ciò nonostante a partire dalla seconda metà del secolo scorso, sebbene si brancolasse praticamente nel buio, furono fatte scoperte degne di nota: l’attività degli antifolati e di altri chemioterapici nel trattamento delle leucemie; l’impiego vincente di raggi X e chemioterapici nel morbo di Hodgkin;  la terapia antiormonale nei tumori alla prostata ed al seno; la relazione tra la fuliggine ed il cancro allo scroto (il cancro degli spazzacamino); la relazione tra il fumo di sigaretta ed il cancro al polmone (una delle più forti dell’epidemiologia oncologica, durevole nel tempo e riproducibile studio dopo studio) così come quella tra l’esposizione all’amianto ed il mesotelioma (rara e maligna forma di tumore al polmone); la relazione possibile tra l’infiammazione prodotta dal virus dell’epatite ed il cancro al fegato così come quella causata dall’Helicobacter pylori ed il cancro allo stomaco. Tali scoperte hanno contribuito in alcuni casi ad una migliore gestione della malattia, sicuramente ad una fondamentale campagna di prevenzione, raramente a risoluzioni definitive, nonostante un sempre più vasto impiego negli anni di risorse e menti.
Quest’epoca quasi adolescenziale dell’oncologia si è di fatto chiusa negli anni Novanta. La disciplina si è progressivamente allontanata dalla sua infatuazione per soluzioni universali e cure radicali, affrontando finalmente questioni fondamentali sul cancro. Quali erano i principi di base che regolavano il comportamento di una specifica forma di cancro? Cosa c’era di comune a tutti i cancri, e cosa rendeva il tumore al seno diverso da quello al polmone o alla prostata? Potevano quei percorsi comuni o quelle differenze aprire nuove strade per la prevenzione e la cura del cancro? Occorreva rivolgersi alla biologia di base e ripartire da essa, occorreva cioè capire intimamente il cancro, i cancri, per poterli contrastare efficacemente.
Già all’inizio degli anni Cinquanta i ricercatori erano divisi in tre fazioni “in lotta”. I virologi sostenevano che erano i virus a causare il cancro, anche se nessuno di tali virus era stato identificato in studi umani. Gli epidemiologi sostenevano che erano sostanze esogene a causare il cancro, anche se non erano in grado di fornire una spiegazione meccanicistica per la loro teoria e nemmeno i risultati. La terza fazione era periferica nel dibattito e pensava ai geni interni alla cellula, senza la quantità di dati degli epidemiologi né le intuizioni sperimentali dei virologi. Nei decenni successivi, grazie agli enormi progressi compiuti nella biologia di base, si verificò che sia taluni virus in certi rari casi che alcune  sostanze endogene in altri erano in grado di produrre il cancro. In entrambi i casi però ciò avveniva attraverso una mutazione genetica, e questo non attraverso l’inserimento dall’esterno di geni estranei bensì attraverso l’attivazione di proto-oncogeni endogeni, cioè di geni normalmente presenti nel nostro DNA ove in individui sani presiedono a funzioni fisiologiche, prevalentemente legate alla riproduzione cellulare. In sostanza, come disse Varmus, premio Nobel per la medicina insieme a Bishop nel 1989, “ si è svelato che la cellula tumorale non è altro che una versione distorta di noi stessi”.
Le sostanze che provocano mutazioni nel DNA causano cancri perché alterano i proto-oncogeni cellulari. Questo chiarisce perché è possibile  che lo stesso genere di cancro possa colpire ad esempio fumatori e non fumatori, benché in percentuali diverse: entrambi hanno gli stessi proto-oncogeni nelle loro cellule, ma i fumatori si ammalano di cancro in una percentuale più alta perché le sostanze cancerogene nel tabacco aumentano il tasso di mutazione di questi geni.
Và aggiunto, come dimostrato da Vogelstein negli anni Novanta, che il cancro non nasce direttamente da una cellula normale. Il cancro spesso procede molto lentamente verso la propria evoluzione ultima, subendo una successione discreta di mutazioni ed accumulandole nel tempo, da una cellula pienamente normale ad una schiettamente maligna. Decenni prima che il cancro alla cervice evolva nella sua manifestazione ferocemente invasiva, nel tessuto è già possibile osservare un vortice di cellule non invasive e premaligne che muovono i primi passi nella loro terribile marcia verso il cancro (da qui deriva l’utilità del Pap Test) . In maniera simile cellule premaligne si riscontrano nei polmoni dei fumatori prima della comparsa di un tumore. Anche il cancro al colon progredisce per gradi e successive mutazioni, da una lesione premaligna non invasiva, detta adenoma, allo stadio terminale detto carcinoma invasivo.
Ora il passaggio da uno stadio premaligno a un cancro invasivo, grazie ai progressi della biochimica, può oggi essere correlato in maniera precisa all’attivazione ed alla disattivazione di nostri geni in una sequenza rigida e stereotipata. Perlomeno in una maniera molto semplificata, la quantità delle mutazioni è spesso scoraggiante. Tuttavia dalla metà degli anni Novanta ad oggi, grazie alle nuove tecniche di DNA ricombinante ed allo splicing ( l’inserimento di specifici geni nel genoma di specifici microrganismi, che permette di far produrre a questi ultimi determinate proteine con proprietà antigeniche in quantità industriali ), solo il National Cancer Institute americano ha identificato almeno una trentina di nuovi farmaci come terapie antitumorali mirate ed altri se ne stanno sviluppando. Alcuni disattivano direttamente gli oncogeni, altri i cicli cellulari attivati dagli oncogeni. Tutto ciò unitamente al perfezionamento delle tecniche chirurgiche e all’esperienza maturata sulla chemioterapia classica, ma soprattutto grazie ad una buona politica di prevenzione, ha prodotto tra il1990 ed il 2005 una riduzione della mortalità per cancro di circa il 15%. Un ottimo risultato, ma nessuna distrazione è consentita: c’è ancora molto da scoprire e la malattia trova sempre nuove strade, le campagne di prevenzione possono perdere la necessaria tensione e nemmeno il panorama delle sostanze cancerogene è statico. Abbiamo creato un universo chimico intorno a noi ed i nostri geni vengono sollecitati da molecole sempre diverse quali pesticidi, farmaci, cosmetici, materie plastiche, prodotti alimentari, perfino forme diverse di impulsi fisici, come le radiazioni ed il magnetismo. Alcune di queste sostanze ed impulsi saranno inevitabilmente cancerogeni ed è nostro compito non abbassare la guardia.
In sostanza, come afferma l’oncologo Harold Burstein, il cancro è l’interfaccia tra la società e la scienza. C’è una sfida biologica, che consiste nello sfruttare l’incredibile progresso delle conoscenze scientifiche per sconfiggere questa malattia antica e terribile, ed una sfida sociale, che consiste nel mettere in discussione le nostre abitudini, i nostri riti ed i nostri comportamenti. Sfortunatamente “ non si tratta di abitudini o comportamenti marginali rispetto alla società e  a noi stessi, ma di qualcosa che si trova proprio dentro di noi: cosa mangiamo e beviamo, cosa produciamo e diffondiamo nell’ambiente, quando scegliamo di riprodurci e come invecchiamo “.
Quindi poiché le mutazioni sono talvolta prodotte da qualcosa di ineludibile, che fa parte del nostro stesso vivere, e poiché tali mutazioni si accumulano inevitabilmente dentro di noi giorno dopo giorno, e’ possibile che siamo fatalmente congiunti a questa malattia cronica, costretti a giocare come il gatto con il topo. Dovremmo forse allora ridefinire l’idea di successo nella guerra contro il cancro. Come ha detto qualcuno “la morte in età avanzata è inevitabile, la morte prima dell’età avanzata no”. E allora se le morti per cancro possono essere prevenute prima di un’età troppo avanzata, se possiamo allungare sempre di più il terribile gioco di trattamento, resistenza, ricorrenza e altro trattamento, allora tutto questo trasformerà il modo in cui noi immaginiamo questa malattia antica. Sarebbe comunque una vittoria tecnologica sulla nostra inevitabilità, una vittoria sul nostro genoma.


                                                                       Felice Marino
                                                                    aliama1@yahoo.it