Lucio Sergio Catilina nacque a Roma nel 108 a.C. Era un aristocratico, apparteneva infatti alla gens Sergia , una delle cento familiae che, secondo la leggenda, avevano fondato Roma. Nel 63 a.C. fu capo di una congiura che falli’ e gli costò la vita.
Così lo ritrae il celebre storico romano Sallustio: “Lucio Catilina, nato da famiglia illustre, era fortissimo di animo e di corpo, ma di indole trista e malvagia. Fin dall’adolescenza trovò piacere nelle stragi, nelle rapine, nelle discordie civili e fra esse passò i suoi anni giovanili. Corpo resistente alla fame, al freddo, alla veglia fino all’inverosimile; animo audace, subdolo, incostante, simulatore e dissimulatore in qualsiasi materia, cupido dell’altrui, scialacquatore del suo, sfrenato nelle passioni, buona parlantina, nessuna saggezza, la mente vasta correva sempre verso lo smisurato, l’incredibile, l’irraggiungibile”.
Questa invece la lettera che lo stesso Catilina scrive a Quinto Lutazio Catulo prima dell’ultima disperata battaglia alla quale non sopravvisse: “Lucio Catilina a Quinto Catulo. Dà fiducia a questa mia lettera di raccomandazione il tuo grande attaccamento a me, conosciuto per esperienza, tanto utile nelle mie grandi peripezie. Non è quindi mia intenzione fare la difesa del mio nuovo progetto, bensì volli sottoporre a te la giustificazione che a me viene dalla consapevolezza di non essere in colpa e che tu, per tutti gli Dei, dovrai riconoscere sincera. Inasprito da ingiustizie e da oltraggi, alla constatazione che, defraudato dei frutti delle mie fatiche e della mia abilità, non posso conseguire il grado conveniente alla mia dignità, mi sono assunto, com’è mio costume, la causa generale dei disgraziati. Non già che io non possa far fronte ai miei impegni personali con i miei averi, ma perché vedo uomini indegni nobilitati dalle pubbliche cariche e me escluso da esse per ingiusti sospetti. Per questi motivi tengo dietro alla speranza, ben onorevole nel mio caso, di conservare quel tanto di dignità che mi è stato lasciato. Vorrei scriverti più a lungo, ma mi giunge notizia che si sta per ricorrere contro di me alla violenza. E ora ti raccomando Orestilla e la affido alla tua leale amicizia. Proteggila da ogni vessazione, te ne prego per i tuoi figlioli. Sta bene.” Quella descritta da Sallustio e quella che scrive a Catulo sono la stessa persona? Parrebbe proprio di si, ma i ritratti sembrano piuttosto divergenti. Evidentemente qualcosa non quadra.
Di Catilina si occupa in un omonimo saggio il giornalista Massimo Fini attraverso una rivisitazione critica delle sue vicende, sullo sfondo di una Roma repubblicana dove a livello politico demagogia, sotterfugi, doppi giochi, tradimenti, ingiustizie, illeciti erano la regola. Ma che strano…
In realtà Sallustio ed il più famoso Cicerone, che di Catilina si occupa nelle sue famose tre Catilinariae, avevano i loro buoni motivi per consegnare ai posteri un’immagine turpe del capo della congiura. Intanto dei motivi personali. Infatti Catilina (una sorta di bel tenebroso), che aveva sedotto più di una nobile vergine sfidando le ire delle loro potenti familiae e la morale della buona società romana, pare avesse violato una Vestale (una sacerdotessa) di nome Fabia. Il punto è che Fabia era sorella di Terenzia, prima moglie di Cicerone, poi sposa in terze nozze di Sallustio.
Ma c’erano soprattutto motivi politici per consegnare alla storia, e senza appello, Catilina come il più violento dei criminali. La congiura di Catilina, a ben guardare, assume infatti i tratti della prima rivoluzione della Storia ed in quanto tale di essa non doveva restare traccia alcuna. Inevitabile una riflessione sul ruolo svolto dalla storiografia ufficiale. Già nell’antica Roma era diffuso il vezzo di mistificare verità e vicende ad uso e consumo dei potenti di turno. Ma che strano…
Ma torniamo a Catilina ed alle sue vicende. Più volte egli provò legalmente la via del consolato (nell’antica Roma repubblicana c’erano due consoli che venivano rinnovati ogni anno), ma fu sempre respinto con ogni genere di trucchi e brogli. Sulla sua strada trovò l’ostilità feroce dell’oligarchia romana ed a farsene interprete fu proprio Cicerone, console in carica in occasione della congiura, un uomo totalmente diverso da Catilina.
Marco Tullio Cicerone, per difesa della legalità, intendeva il mantenimento dello statu quo, salvo cambiare idea quando la legge era d’intralcio a qualche manovra di potere o affaruccio poco pulito. Questo strenuo arrocco a difesa dei propri interessi era mascherato, come sempre, con nobili parole sulla humanitas, la dignitas, l’amor di Patria, delle tradizioni, degli Dei. Cicerone fu proprio il campione dei campioni del belpensantismo ipocrita del tempo. Fu sicuramente un grandissimo avvocato, forse con Demostene il migliore dell’antichità. Ma quelle che furono le sue doti di avvocato furono anche il suo deficit di uomo: mancanza di convinzioni, cinismo, opportunismo, ambiguità.
Ma perché Catilina era così insidioso per l’aristocrazia romana? Con la sconfitta di Cartagine Roma divenne padrona del Mediterraneo. Immense ricchezze affluirono nelle mani degli aristocratici insieme a decine di migliaia di schiavi. Gli aristocratici, per quanto si sfogassero in lussi mai visti prima, avevano il “problema” di impiegare l’enorme surplus di denaro venutosi a creare. Erano proprietari terrieri ed investirono nella terra. Poiché i piccoli proprietari terrieri erano tenuti al servizio militare, questo comportava lunghe assenze e conseguente indebitamento. Furono quindi facili prede dei latifondisti. In sostanza tanto più grande diventava il latifondo tanto più fragile si faceva la piccola ed anche la media proprietà. Possedendo terre a volontà i grandi proprietari, diversamente dai piccoli, non si curavano di farle rendere al massimo. Inoltre le terre erano lavorate da schiavi che, come ovvio, profondevano un impegno relativo.
Il risultato fu il ricorso, sempre più frequente, ad importazioni di grano prima dalla Sicilia e dalla Sardegna, poi dall’Africa e dall’Egitto. L’uso su vasta scala della manodopera servile finì per togliere il lavoro anche ai fittavoli ed ai braccianti che spesso erano proprio ex proprietari ridotti a salariati. La conseguenza fu l’inurbamento e in tantissimi si spostarono a Roma. Anche in città però era difficile trovare lavoro, fatto salvo i lavori stagionali. Ecco allora che a Roma si radicò una plebe malcontenta, la cui vocazione parassitaria si accentuò allorchè furono introdotte distribuzioni gratuite o semi-gratuite di grano. Nello stesso tempo l’acquisizione di nuove province incrementò molto il commercio. Spuntarono banchieri, finanzieri ed affaristi di ogni genere. I non aristocratici che svolgevano queste attività erano chiamati cavalieri e furono proprio i cavalieri a introdurre e sviluppare il prestito ad usura. Questo poteva raggiungere un interesse anche del 50% e strangolava un po’ tutti, talvolta gli stessi aristocratici impegnati a finanziare le proprie carriere politiche. Il denaro in definitiva cominciò a prendere il sopravvento su tutto e tutti. Si instaurò il classico regime, tipico delle società in decadenza e in decomposizione, della doppia morale: una pubblica, buona per la gente comune e per i gonzi che ci volevano credere, l’altra privata che si faceva beffe della prima.
In questo contesto, dopo la brutale fine riservata ai Gracchi, nel suo ennesimo tentativo di raggiungere il consolato Catilina propose qualcosa di veramente rivoluzionario. Per prima cosa una riforma agraria che, ribadendo l’intangibilità del diritto di proprietà, prevedeva una vastissima redistribuzione di terre ai nullatenenti, facendo perno sulle terre del demanio in Italia e soprattutto all’estero nelle nuove provincie. Il programma economico catilinario colpiva duramente anche i cavalieri attraverso la cancellazione parziale dei debiti e l’abrogazione delle leggi che disponevano l’arresto e la carcerazione dell’insolvente, nonché attraverso l’abbassamento degli interessi debitori fissando un limite legale del 12%. In sostanza Catilina era per un riequilibrio tra l’oligarchia aristocratica, che deteneva di fatto tutto il potere istituzionale, e la plebe, e per un ridimensionamento drastico dell’influenza dei cavalieri che, con la potenza del denaro contante, tiranneggiavano entrambe. Il fatto poi che nel movimento catilinario ci fossero moltissime donne e numerosi schiavi fa ritenere che si volesse dare dignità politica alle prime e almeno giuridica ai secondi. Le prime infatti non votavano e non potevano essere elette alle cariche pubbliche, i secondi erano considerati dal punto di vista giuridico delle cose.
Alla fine, vittima per l’ennesima volta di brogli e trucchetti, il guerriero Catilina, ormai esausto, optò per la congiura e prese le armi. Catilina non era Spartaco, che con i suoi gladiatori aveva insanguinato la penisola pochi anni prima, non combatteva contro Roma ma per Roma, la Roma delle origini che si portava nella testa. Tradito da alcuni congiurati, fu progressivamente isolato e disinnescato. Contrastato in maniera durissima si trovò ad affrontare lo scontro con forze impari e lo affrontò. Morì, pagando con la vita la fedeltà a se stesso.
Lo stesso Sallustio, nel descrivere la fine di Catilina, ammette che “Catilina venne trovato lungi dai suoi fra i cadaveri dei nemici; respirava ancora un poco ma gli si leggeva sul volto la stessa espressione di indomita fierezza che aveva da vivo”.
Felice Marino
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