sabato 13 ottobre 2012

LA MANOMISSIONE DELLE PAROLE

In un recente articolo dal titolo “Catilina”, rivisitando le vicissitudini storiche di quest’ultimo, ho posto l’accento sul ruolo della storiografia ufficiale e sul rischio che le verità storiche  possano essere mistificate dai “vincitori”, talvolta totalmente ribaltate. Questo mese invece, ispirato dalla lettura di “La manomissione delle parole” di Gianrico Carofiglio, voglio soffermarmi sul potere del linguaggio, dell’eloquenza, e sulla possibilità che il linguaggio stesso possa essere volutamente manomesso nelle sue componenti prime, ossia le parole.
Mi spiego meglio. In nessun altro sistema di governo le parole sono importanti come in democrazia. La democrazia è discussione, è ragionamento, si fonda sulla circolazione delle opinioni e delle convinzioni, e lo strumento privilegiato di questa circolazione sono le parole.
La povertà della comunicazione sovente si traduce in povertà dell’intelligenza, talora in doloroso soffocamento delle emozioni. Non è un caso che i ragazzi più violenti possiedano spesso strumenti linguistici scarsi ed inefficaci, sul piano del lessico, della grammatica e della sintassi. Non sono capaci di gestire una conversazione, non riescono a modulare lo stile della comunicazione in base agli interlocutori ed al contesto, non fanno uso dell’ironia e della metafora. Non sanno sentire, non sanno nominare le proprie emozioni, non sanno raccontare storie. I ragazzi sprovvisti delle parole per dire i loro sentimenti di tristezza, di rabbia, di frustrazione hanno un solo modo per liberarsi e liberare sofferenze a volte insopportabili: la violenza fisica.
C’è dunque uno stretto rapporto tra ricchezza delle parole e ricchezza di possibilità. L’abbondanza, la ricchezza delle parole è una condizione del dominio e del controllo sulla realtà e diventa, inevitabilmente, strumento del potere, segnatamente di quello politico. Ecco perché è necessario che la conoscenza, il possesso delle parole siano esenti da discriminazioni e garantiti da una scuola uguale per tutti. Ma la qualità della vita pubblica di un paese si può desumere non solo dal numero delle parole ma anche dalla loro qualità.
La tesi di Carofiglio e di molti altri è che l’impoverimento nel numero delle parole e la menomazione della loro capacità di indicare cose e idee stia indebolendo la democrazia ed aprendo sempre più la strada alle destre. Egli sostiene che la tendenza non sia affatto casuale e che spesso risponda ad un preciso intento di gruppi di potere. Nel famosissimo romanzo 1984 di G. Orwell il regime di Oceania non solo altera la verità della storia, ma anche il linguaggio con cui l’individuo esprime il suo pensiero. La Neolingua era intesa non a ad estendere ma a diminuire le possibilità del pensiero: si veniva incontro a questo fine riducendo al minimo la scelta delle parole. L’abbondanza di parole e la molteplicità di significati sono strumenti del pensiero, ne accrescono la potenza e la capacità critica: parallelamente la ricchezza del pensiero esige una ricchezza di linguaggio. Il progressivo contrarsi del linguaggio, in Oceania ed in altri luoghi meno immaginari, ha per effetto prima l’impoverimento, poi una vera e propria inibizione del pensiero.
La riduzione del numero di parole e la storpiatura del loro significato vanno spesso di pari passo. La scelta delle parole è un atto cruciale e fondativo: esse sono dotate di una forza che ne determina l’efficacia e che può produrre conseguenze. Espressioni come giudeo, terrone, negro, marocchino attivano immediatamente l’ostilità, creano “un altro” estraneo da respingere. E’ un’interferenza sulla realtà che ogni giorno sperimentiamo, una manipolazione che passa attraverso la scelta delle parole e che in molti casi si fa violenza, palese o più spesso e più pericolosamente occulta. Il filologo tedesco Klemperer non smise mai durante gli anni della persecuzione nazista di annotare, registrare, censire la progressiva torsione, l’abuso, la violenza esercitata sulla lingua tedesca dal regime. La lingua nazista in molti casi si rifà  ad una lingua straniera, per il resto quasi sempre al tedesco prehitleriano: però muta il valore delle parole e la loro frequenza, trasforma in patrimonio comune ciò che prima apparteneva ad un singolo o ad un gruppuscolo, asservisce la lingua al suo spaventoso sistema. Le parole come minime dosi di arsenico, dall’effetto lentamente, inesorabilmente tossico: questo è il pericolo delle lingue del potere e dell’oppressione, e soprattutto del nostro uso e riuso inconsapevole e passivo.
Se guardiamo al nostro paese in questi ultimi vent’anni parole come libertà, secessione, spread o espressioni come toghe rosse, Roma ladrona, governo tecnico hanno rappresentato senza dubbio esempi di linguaggio del potere. I potenti di turno hanno forzato la lingua ma, cosa ancora più grave, hanno spesso privato tante parole, abusandone, del loro significato per cui ad esempio profondere i beni altrui diventa liberalità, la spregiudicatezza nelle male azioni diventa sinonimo di forza d’animo, una dichiarazione di prescrizione diventa una sentenza di assoluzione. Nello specifico poi  Carofiglio, nella seconda parte del libro, individua cinque parole da riabilitare con urgenza, esse sono: vergogna, giustizia, ribellione, bellezza e scelta.
Il pericolo più imminente, in sostanza, è che a furia di utilizzare le parole a proprio uso e consumo tirandole per la giacchetta, queste finiranno per non significare più nulla e questo impoverimento linguistico finirà in definitiva per limitare la nostra capacità di pensare, esattamente il contrario di ciò che richiederebbe una democrazia sana. In ogni caso però come affermò il già citato Klemperer :“ le asserzioni di una persona possono essere menzognere, ma nello stile del suo linguaggio la sua natura si rivela apertamente “.

                                                               Felice Marino
                                                             aliama1@yahoo.it