Il viaggio attraverso le “Favole Periodiche” di Hugh Aldersey-Williams continua con la sezione riguardante l’impatto che la chimica degli elementi ha avuto ed ha nell’ambito della Bellezza.
La scoperta del cadmio nei primi anni dell’Ottocento, ad opera di Friedrich Stromeyer, scatenò ad esempio la più grande rivoluzione mai vista nell’arte dei colori. In base alla quantità con cui erano presenti una serie di impurità, i pigmenti di solfato di cadmio potevano spaziare da un verde primavera leggermente sporco al giallo, all’arancione, fino ad un rosso vividissimo o a sue tonalità più profonde e ad un marrone scuro. In pratica l’intero spettro dell’arcobaleno, fatto salvo il blu.
Questi splendidi pigmenti diventarono uno strumento indispensabile per i pittori, che li preferirono a quelli che avevano utilizzato sino ad allora. Gli impressionisti, i post-impressionisti e soprattutto i fauvisti fecero buon uso del cadmio e dell’abbondanza di tonalità che esso garantiva o meglio, per essere più precisi, fu proprio il cadmio a rendere possibili queste successive ondate di rivoluzioni artistiche. L’avreste mai detto? Non appena venivano messe in commercio, le nuove tinte andavano a dar corpo ai tramonti gialli di Monet, agli interni arancioni di Van Gogh o allo Studio Rosso di Matisse.
Il blu per contro è sempre stato uno dei colori più difficili da ricavare dalla natura, tanto da sembrare spesso irraggiungibile come il cielo stesso. Per la realizzazione delle splendide vetrate della cattedrale di Saint-Denis di Parigi l’abate Suger utilizzò un blu appena scoperto, di ottima qualità, ottenuto dai minerali di un metallo allora ancora sconosciuto: il cobalto. Fu proprio la disponibilità di questi eccezionali minerali a lanciare nel XII secolo la moda del blu. Seguendo l’esempio di Saint Denis, prima Chartres, quindi Le Mans e altri grandi chiese del periodo si gloriarono di preziose lastre di zaffiro nelle proprie finestre.
Ispirati dai vetrai, altri artigiani iniziarono poi a fare un uso più frequente del blu nella smaltatura, nella pittura, nella creazione di capi d’abbigliamento e nell’araldica. Il blu divenne il colore preferito per rappresentare le vesti della Vergine Maria e, attraverso questa associazione al sacro, esso venne adottato anche dalla monarchia francese.
Alla fine del secolo la richiesta di vetri blu da parte delle chiese era talmente elevata che, per soddisfarla, gli artigiani dovettero far ricorso ad altri blu, ottenuti dal rame e dal manganese; ma mentre questi ultimi , meno stabili, si sono deteriorati nel corso dei secoli, il blu cobalto di Saint Denis ha mantenuto l’intensità che aveva ai tempi di Suger, quella sua luminosa oscurità considerata da alcuni come la perfetta rappresentazione della presenza divina.
Sembra probabile che il blu di Suger provenisse, in un modo o nell’altro, da miniere persiane: i mercanti potrebbero cioè aver portato la smaltina grezza direttamente in Francia. L’ossido di cobalto, che viene ottenuto facendola bruciare all’aria aperta, ha a sua volta un aspetto grigiastro; lo smalto blu brillante si forma solo quando questo materiale viene fuso assieme al quarzo o alla potassa. Una nuova fonte europea fece ulteriormente crescere la popolarità del blu nel XVI secolo, quando si scoprì che anche le vecchie miniere d’argento sulle montagne fra la Sassonia e la Boemia erano ricche di smaltina. Con un po’ di fantasia possiamo immaginare una rete di sentieri polverosi del “blu” che partivano dalle miniere della Persia e della Sassonia e si dirigevano a est e a ovest, verso i grandi centri artistici del mondo.
Lo smalto presentava un’elevata compatibilità non solo con la fabbricazione del vetro ma anche con i materiali e i processi di lavorazione della ceramica: era infatti una delle poche sostanze che non perdeva il proprio colore durante la cottura, anzi quest’ultima lo rendeva addirittura più intenso. Il cobalto persiano, che era già utilizzato dai vetrai veneziani per le loro creazioni, fu lo stesso che fu utilizzato dai cinesi per la realizzazione delle porcellane Ming. L’arrivo di queste ultime in Europa attraverso il Portogallo, insieme alla concomitante disponibilità del cobalto sassone, contribuì in maniera determinante allo sviluppo ed alla diffusione sia delle famose ceramiche di Delft in Olanda che delle altrettanto famose porcellane di Meissen nella stessa Sassonia.
Molto singolare invece è stata l’epopea del cromo. In poco meno di mezzo secolo esso è passato per così dire dalla fama all’oblio. Gli oggetti cromati, come lampade e pezzi d’arredamento, fecero faville all’ Esposizione Internazionale delle Arti Decorative allestita a Parigi nel 1925, in seguito alla quale il metallo entrò a far parte della grammatica visiva dell’Art Déco. Era la lucentezza che ci voleva per tempi tanto instabili. Il nuovo affascinante metallo ebbe un ruolo centrale proprio nelle bizzarrie dell’Art Déco.
Fu solo dopo la seconda guerra mondiale che grazie alla possibilità di realizzare placcature durevoli, oltre che attraenti, il cromo venne utilizzato, non senza qualche stravaganza, per realizzare una sempre più ampia gamma di prodotti. In breve tempo il cromo diventò l’elemento metallico che meglio identificava la fiorente società dei consumi: irraggiava un senso di modernità, di fascino, di eccitazione, di velocità, ma anche di superficialità. Il cromo divenne rapidamente il biglietto da visita internazionale dell’opulenza americana.
Ciononostante, già a metà degli anni Settanta, il cromo si trasformò rapidissimamente da elemento depositario di una sorta di fascino universale a materiale un po’ troppo appariscente, considerato addirittura pacchiano. Il cromo aveva perso la sua presa sull’immaginazione della gente, di chi nutriva ambizioni sociali, e la sua reputazione venne presto a cadere. Oggi il termine “cromo” è quasi un insulto, spesso infatti lo si usa per riferirsi a quelle opere che insistono troppo sugli effetti speciali.
Felice Marino
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