domenica 19 giugno 2011

La riflessione

UN’ISOLA, DUE POPOLI, DUE STORIE: LA REPUBBLICA DOMINICANA ED HAITI
ISTRUZIONI PER L’USO

Recentemente ho avuto modo di leggere un libro che ho trovato molto, molto interessante. L’autore è J. Diamond, docente all’università della California, ed il titolo è “Collasso. Come le società scelgono di vivere o morire”.
Lo spettacolo delle rovine di antiche civiltà ha in sé qualcosa di tragico. Popoli un tempo ricchi e potenti sono scomparsi, magari nel volgere di pochi anni, lasciando solo qualche masso a testimonianza. Diamond cerca di capire come i collassi del passato abbiano potuto verificarsi e si chiede se la società contemporanea sia in grado di imparare la lezione, evitando disastri analoghi in futuro, ed in questo una gestione più o meno oculata delle risorse ambientali pare giocare un ruolo fondamentale. Il punto di partenza è il racconto delle storie di chi non ce l’ha fatta: gli abitanti dell’isola di Pasqua, i maya, gli anasazi, per passare poi a storie meno tragiche come quella dell’Islanda o del Giappone, quindi a storie dall’esito incerto come quelle della Cina o dell’Australia. Un capitolo però mi ha colpito profondamente, perché emblematico di come istituzioni e governi, quindi gli uomini, possano produrre esiti totalmente diversi. Si tratta della storia e dell’attualità di Hispaniola, l’isola scoperta da Cristoforo Colombo nel 1492 durante il suo primo viaggio nelle Americhe, che oggi è divisa tra due stati: Haiti e la Repubblica Dominicana.
Diamond sottolinea come, chi c’è stato ha potuto verificarlo di persona, il confine tra i due stati visto dall’alto sembri una ferita, una linea tracciata in modo arbitrario che divide nettamente due mondi: ad est (la parte dominicana) verdi boschi e prati, a ovest (la parte haitiana) terra brulla e riarsa (il 28% del territorio dominicano è ancora coperto da foreste, contro l’1% di Haiti). Eppure in origine tutta l’isola era coperta da foreste.  Haiti è affollata, molto più della Repubblica Dominicana: copre un terzo dell’isola ma ha quasi i due terzi della popolazione totale. La crescita demografica e i tassi d’infezione da AIDS sono tra i più alti del mondo. Anche la Repubblica Dominicana è un paese in via di sviluppo, ma a paragone di Haiti è un paradiso. La densità demografica e il tasso di crescita della popolazione sono più bassi, il reddito pro-capite è cinque volte più alto. Perché i due paesi hanno avuto destini così diversi? In parte per via di piccole differenze ambientali, ma soprattutto a causa della storia, dell’identità, della mentalità, delle istituzioni e dei governi dei due rispettivi popoli.
Le differenze ambientali erano rilevanti ma non decisive. La parte dominicana dell’isola riceve più pioggia e il tasso di crescita della vegetazione è più rapido. Sul suo territorio si trovano le montagne più alte, i fiumi più importanti e le pianure più estese. Il suolo è di migliore qualità, la valle del Cibao è una delle aree più fertili del mondo. Haiti è più arida ed ha una percentuale più alta di territorio montuoso. Le zone pianeggianti adatte all’agricoltura intensiva sono molto più limitate, il suolo è meno fertile e soprattutto ha una minore capacità di recupero.
Nonostante la parte haitiana fosse la meno dotata da un punto di vista ambientale fu la prima ad essere sfruttata per finalità agricole e la prima ad arricchirsi sotto il controllo dei francesi, subentrati nel frattempo agli spagnoli. Purtroppo però lo sfruttamento anticipato  ed intensivo, dovuto anche al notevole aumento demografico prodotto dai tanti schiavi di colore fatti affluire dall’Africa francofona, inferse danni irrimediabili alla fertilità del suolo ed a ciò si aggiunse una rapidissima deforestazione per l’esportazione di grandi quantità di legno, oltre che nel tentativo di recuperare terreno per altri fini. Risultato? Già verso la metà del XIX secolo le pianure e le colline haitiane erano praticamente prive di alberi. Nella Repubblica Dominicana, a lungo colonia spagnola marginale e trascurata dalla madrepatria, l’impatto ambientale e l’aumento demografico furono decisamente più contenuti.
Ma presto anche le economie presero strade diverse ed imprevedibili. La costituzione haitiana proibiva agli stranieri di possedere terre e fare investimenti nell’isola, inoltre la maggior parte degli haitiani possedeva un fazzoletto di terra che usava per sfamarsi, impedendo però in questa condizione una produzione su larga scala destinata alla vendita sui mercati europei. I dominicani, al contrario, non proibivano immigrazioni e investimenti stranieri, si formarono latifondi ed il commercio con l’estero fu agevolato in molti modi. Diversa fu l’immagine internazionale delle due nazioni. Agli occhi degli europei, la Repubblica dominicana era una società di lingua spagnola, con una significativa popolazione bianca e aperta all’esterno e al commercio, mentre Haiti era una società africana di lingua creola formata da ex schiavi e ostile agli stranieri.
Anche le dittature che entrambi i paesi hanno vissuto nella seconda metà del Novecento hanno allargato il solco tra di essi, ad Haiti quella di Duvalier mentre nella Repubblica Dominicana quella di Trujillo prima e Balaguer dopo. Questi ultimi due cercarono (anche se le motivazioni non erano nobili: volevano intascare una fetta più grande di ricchezze) di migliorare l’economia e modernizzare il paese, il primo al contrario non fece proprio nulla acuendo una situazione già disperata. Balaguer in particolare si rivelò un vero paladino dell’ambiente, ampliò il sistema delle riserve naturali ed istituì i primi parchi costieri intuendone l’enorme valore ed il potenziale turistico. Ciò non deve sorprendere per un dittatore: Adolf Hitler amava i cani e si lavava regolarmente i denti, questo non significa che dobbiamo smettere di fare entrambe le cose.
Tutte queste cose messe insieme hanno prodotto il risultato che è sotto gli occhi di tutti: pur essendo sulla stessa isola la Repubblica Dominicana è una delle realtà centro-americane più vivaci, mentre Haiti è un paese sull’orlo del collasso (il recente sisma ha prodotto un ulteriore dramma nel dramma), tanto che chi visita il paese in genere ritorna con la convinzione che non ci siano speranze per il futuro.
Una storia lontana e di scarso appeal? Non credo. E’ uno dei tanti esempi (ancora più emblematico perché generatosi a partire da un comune punto d’inizio) di quanto sia fragile il nostro ecosistema e di quanto siano impattanti su di esso le attività umane, di come un atteggiamento di chiusura verso l’esterno o di scarsa managerialità possano progressivamente impoverire una società. Ma questo caso dimostra soprattutto con chiarezza che il destino di una società spesso è nelle sue stesse mani e dipende essenzialmente dalle sue scelte.

                                                                                             Felice Marino

domenica 5 giugno 2011

Bistrot Philo 14a puntata. "La morte di Dio"

Ciao a tutti, riprende il Bistrot Philo. Ecco lo spunto della 14a puntata che andrà in onda giovedi 9 Giugno alle ore 2200 su Radioantares. Come sempre sono graditi i vostri contributi.

LA MORTE DI DIO
Dove se ne è andato Dio? - gridò l’uomo folle rivolto a molti di quelli che non credevano in Dio. – Ve lo voglio dire! L’abbiamo ucciso, voi e io. Ma come abbiamo fatto?” Friedrich Nietzsche, La gaia scienza

Lo spunto di U. Galimberti
Intorno a Dio c’e’ poco da dire. Fede e mancanza di fede sono adesioni dell’anima che vengono prima di tutti i ragionamenti e resistono a tutti i ragionamenti. Qualcosa possiamo dire invece intorno alla morte di Dio annunciata da Nietsche, secondo il quale Dio è morto perché oggi gli uomini vivono e si comportano prescindendo dalla sua esistenza, costruendo un mondo che si lascia comprendere anche senza ricorrere all’idea di Dio.
Non è stato sempre così. Nel Medioevo, per esempio, dove la letteratura parlava d’Inferno, Purgatorio e Paradiso, dove l’arte era arte sacra, dove persino la donna era donna-angelo, nulla di quella cultura poteva essere compreso se si prescindeva dall’idea di Dio. Quindi Dio esisteva e faceva mondo. Oggi il nostro mondo può benissimo essere compreso senza ricorrere all’idea di Dio, mentre difficilmente sarebbe leggibile senza l’idea di “mercato” o l’idea di “tecnica”. Oggi quindi Dio è morto. Intorno al suo nome non accade un mondo, perché il mondo che viviamo non ha bisogno dell’idea di Dio per essere compreso. Altri sono i suoi referenti.
Per questo dico che al di là dell’apparente risveglio religioso, fatto più di effetti mediatici e di speculazioni politiche, le religioni si stanno avviando inesorabilmente verso la loro estinzione, non per l’inarrestabile processo di secolarizzazione che caratterizza la nostra cultura, e neppure perché con le conquiste della scienza e della tecnica l’uomo può ottenere da sé quel che un tempo implorava da Dio, ma perché l’età della tecnica ha modificato la nostra psiche, abituandola a un tempo contratto che è l’intervallo che intercorre tra i mezzi e i fini.
Un mezzo è un mezzo se adeguato al fine che vuol raggiungere, perché se è inadeguato, non è più un mezzo. Allo stesso modo un fine è un fine, e non un sogno, se i mezzi per conseguirlo sono disponibili oggi e non chissà quando. Questo tempo contratto tra il recente passato e l’immediato futuro, che è il tempo proprio dell’età della tecnica, sopprime, dentro di noi, il tempo escatologico che prevede che, alla fine (del mondo), si realizzi quello che all’inizio era stato annunciato. E siccome la religione si fonda sul tempo escatologico, se questo non ha più riscontro e risonanza nella nostra psiche, la religione muore, perché non più sostenuta da quella dimensione temporale (l’escatologia) di cui si alimenta. Resta il problema del “senso della vita” a cui le religioni offrivano risposte. Perciò l’umanità vaga senza orizzonte, ma senza neppure più la disponibilità di affidarsi a quelle che già Eschilo chiamava “cieche speranze”.