sabato 3 marzo 2012

OCCIDENTE ESTREMO

Il rapporto che oggi intercorre tra le due superpotenze mondiali, Stati Uniti e Cina, è davvero singolare ed una sua analisi ci spiega molto sulla realtà dei nostri tempi. Ad un esame attento appaiono come fratelli siamesi, indivisibili, ciascuno impossibilitato a vivere in mancanza dell’altro, ma molto diversi l’uno dall’altro. Se ne è occupato il corrispondente di Repubblica Federico Rampini nel suo “Occidente Estremo”, un volume molto interessante che ha fatto seguito, ormai un paio d’anni fa, ai best-sellers “Il secolo cinese” e “L’impero di Cindia” e dei quali è la naturale prosecuzione.
Personalmente ho avuto la possibilità di visitare entrambi i paesi qualche anno fa e devo dire che mi sono ritrovato in gran parte delle descrizioni di questo libro. Ne ho altresì condiviso ed apprezzato i ragionamenti. Potrei sintetizzare così: da una parte il cervello del mondo, dall’altra la fabbrica del mondo. La realtà, però, è sicuramente più complessa e presenta  non poche zone d’ombra.
E’ indubbio che gli Stati Uniti vivano anni difficili. Ancora scossi dalla crisi scatenata dai subprime gli USA si apprestano a vivere un 2012 da incubo, una sorta di Armageddon del mercato obbligazionario. Verranno a scadenza simultaneamente titoli di Stato, obbligazioni di aziende solide e junk-bond, per un volume complessivo che sarà quasi otto volte superiore a quello che i mercati assorbono in un anno normale. Solo il tesoro USA dovrà emettere titoli di Stato per quasi 2000 miliardi, per finanziare il fabbisogno corrente e rifinanziare il debito venuto a scadenza. A questo verrà ad aggiungersi una valanga di obbligazioni private giunte a scadenza. Una quantità senza precedenti, tutta concentrata a partire dal 2012. Questo perché le ultime maxi-emissioni risalgono agli anni 2007-2008, quando il denaro facile era ancora la regola, prima che i sussulti della crisi cominciassero a farsi sentire. Si trattava per la massima parte di emissioni a cinque e sette anni.
E’ la conseguenza di un modello economico fondato sull’indebitamento a cui va aggiunta una vera e propria regressione, indotta, dei consumatori allo stato infantile. In sostanza il sistema si è messo a produrre bisogni ancora prima di produrre beni. Ma nell’America di oggi succede anche che il Pentagono annunci che un terzo dei giovani statunitensi non è reclutabile dall’esercito perché così sovrappeso da essere degli invalidi già a vent’anni o che i risultati degli studenti americani nell’apprendimento delle materie scientifiche, a livello internazionale, siano valutati come mediocri.
Dall’altra parte del Pacifico troviamo invece la locomotiva cinese, la cui economia cresce vertiginosamente ormai da un ventennio. Non è un caso che i profitti del capitalismo USA arrivino  prevalentemente dall’Asia. Per la prima volta nella storia nel 2010 i consumatori dei paesi emergenti hanno speso più dei loro omologhi americani. Le spese delle famiglie nelle nazioni emergenti sono state il 34% dei consumi globali contro il 27% dei consumatori americani. Sono sempre i paesi emergenti, la Cina in primis, a possedere gran parte del debito americano oltre che una montagna di dollari nelle loro casseforti. La Cina è diventata il principale creditore degli Stati Uniti grazie ai 2500 miliardi di dollari di riserve valutarie controllate dalla sua banca centrale. Da qui i timori cinesi che la montagna di debito americano possa essere “deprezzata” in una possibile spirale inflazionistica futura.
Tradotto: la Cina è costretta a tenere in vita gli Stati Uniti continuando a comprarne il debito collettivo, mentre i grandi gruppi privati americani continuano ad arricchirsi vendendo ai nuovi ricchi cinesi. Ma in realtà la Cina è costretta a tenere in vita gli Stati Uniti anche perché non è in grado di sostituirsi ad essi, o meglio al ruolo guida che essi hanno nel mondo.
La cultura cinese è storicamente una cultura molto chiusa. Un sinoamericano continua a sentirsi cinese anche alla quarta generazione, ne sono una testimonianza le tante China-Towns sparse per il mondo. L’ascesa della Cina come superpotenza egemonica la porterà inevitabilmente ad interagire in modo sempre più intenso con il resto del mondo, ma interagire non significa convivere parallelamente. Nello stesso tempo la mancanza di democrazia, così come l’assenza di scambi culturali, soffoca lo slancio creativo dei giovani cinesi determinando una sudditanza quasi strutturale nella competizione per le idee. Il Partito ha anestetizzato dopo Tienanmen le nuove generazioni con l’ideologia del denaro e questi giovani apolitici non si pongono più domande. Il dogma dell’infallibilità del Partito non si può rimettere in gioco. Si aprirebbe la strada al pluralismo, i cinesi chiederebbero di più. E’ evidente che tutto ciò impedisce che la “fabbrica del mondo” possa assumere la leadership del mondo stesso.
Nell’era in cui la produzione delle cose è finita in gran parte in Asia, la manifattura dei sogni resta saldamente in mano alla California. Ma non è affatto l’unica cosa nella quale gli americani dominano ancora. Il Gps (Global Positioning System), che conosciamo per i navigatori satellitari, resta saldamente sotto il controllo del Pentagono. Senza di esso si fermerebbero i Bancomat delle banche e le transazioni di Borsa. Esso ha aumentato prodigiosamente la capacità di sorvegliare i nostri movimenti e garantisce una supremazia militare difficilmente scalfibile.  Dal 2010 è partito un imponente piano per sostituire uno per uno i ventiquattro satelliti che gestiscono l’intelligenza del sistema, aumentandone precisione, affidabilità e sicurezza. Anche nella formazione di cervelli gli Stati Uniti continuano a non temere rivali. L’Università americana, oltre che accogliere le migliori intelligenze da ogni parte del mondo, è una fucina d’innovazioni perché incoraggia gli studenti a pensare autonomamente, a rimettere in discussione l’autorità accademica e la scienza esistente. Solo un sistema che premia i ribelli può generare Bill Gates e Steve Jobs. L’America non sarà più egemonica come in passato, ma grazie alla mescolanza multietnica e ad un sempre verde slancio ideale conserva una marcia in più, dalla tecnologia alla creatività culturale.  Anche l’apporto continuo degli immigrati è un punto di forza. Tra le cento maggiori imprese americane quindici sono state fondate e guidate da stranieri.
Cina e Stati Uniti sono dunque ormai due vasi comunicanti, lo yin e yang a ruoli alterni del mondo d’oggi. E’ facile intuire che lo scenario globale del mondo di domani dipenderà in larga misura dall’evoluzione di questo strano equilibrio.

                                                                       Felice Marino
                                                                     aliama1@yahoo.it

Bistrot Philo 18a puntata

Ciao a tutti, qui di seguito trovate lo spunto per la 18a puntata del Bistrot Philo che andrà in onda su radioantares ed Fb sabato 17 Marzo alle ore 1800. Se volete lasciare un pensiero potete farlo qui di seguito sul blog oppure all'indirizzo di posta elettronica aliama1@yahoo.it. Grazie

BISTROT PHILO 18° puntata
DAL LAVORO COME PRODUZIONE AL LAVORO COME SERVIZIO

E’ evidente che più la vita si fa tecnologica, più si riducono i posti di lavoro. E paradossalmente quello che è sempre stato il sogno più antico dell’uomo: la liberazione dal lavoro, si sta trasformando in un incubo. Siccome il processo è irreversibile, nonostante i correttivi, i finanziamenti mirati, i contratti d’area, i lavori socialmente utili e altre ideazioni che la politica tenta di escogitare per scongiurare l’incubo, forse non c’è altra via d’uscita se non quella di ripensare il concetto di lavoro, che l’economia capitalistica da un lato e l’apparato tecnico dall’altro hanno a tal punto identificato con l’esistenza, da rendere a tutti evidente l’equazione secondo cui: chi non lavora, dal punto di vista sociale, non esiste.
Ma è davvero così? O questa equazione si legittima solo a partire dalla nozione di lavoro che l’economia capitalistica da un lato e l’apparato tecnico dall’altro hanno messo in circolazione, senza prendere minimamente in considerazione il fatto che, dietro ogni lavoro, c’è un uomo che lavora? Se Marx, a suo tempo, denunciava l’alienazione “nel” lavoro, che consiste nel completo appiattimento dell’uomo sulla sua attività lavorativa, come se questa fosse divenuta l’unico indicatore della riconoscibilità dell’uomo.
E allora la domanda che dobbiamo porci è quella che Francesco Totaro ci suggerisce: “i fini della tecnica e dell’economia capitalistica sono anche i nostri fini?”. O siamo noi diventati semplici strumenti della tecnica la quale ci impiegherebbe come momenti della sua organizzazione, semplici anelli insignificanti della sua catena, o, se preferiamo, mezzi imprescindibili, ma anche fra i più intercambiabili di qualsiasi altro mezzo, all’interno di un apparato economico-tecnologico divenuto fine a se stesso?
Se così non vogliamo essere, la proposta è quella di passare gradatamente dal “lavoro come produzione” (che ha in vista solo la sua crescita esponenziale, senza ragione e senza perché) al “lavoro come servizio”, dove la produzione non ha in vista solo beni e merci (di cui al limite non sappiamo neanche cosa farcene, se non fosse per i bisogni e i desideri “indotti”, cioè a loro volta “prodotti”), ma anche erogazione di tempo, di cura, di relazione.
I profili lavorativi che potrebbero nascere da questa nuova visualizzazione del lavoro (di cui la società già sente a livello massiccio l’esigenza, se dobbiamo giudicare dal gran numero di persone che si dedicano al volontariato) sarebbero profili lavorativi che potrebbero trovare non solo una reale e massiccia domanda, ma anche un significativo riconoscimento economico, se l’economia, che pensa sempre e solo alla produzione, sapesse diversificare i suoi prodotti e cominciare a produrre non solo merci e sempre più merci, ma anche e in misura crescente servizi per la persona e per la relazione tra le persone.
E questo anche perché la felicità, nonostante la pubblicità serva delle merci vi alluda, non ci viene dall’ultima generazione di detersivi, di telefonini o di computer, e più in generale di prodotti, ma da uno straccio di relazioni in più che il lavoro come “servizio” e non solo come “produzione” potrebbe cominciare a garantire.

                                                                        U. Galimberti