BISTROT PHILO 18° puntata
DAL LAVORO COME PRODUZIONE AL LAVORO COME SERVIZIO
E’ evidente che più la vita si fa tecnologica, più si riducono i posti di lavoro. E paradossalmente quello che è sempre stato il sogno più antico dell’uomo: la liberazione dal lavoro, si sta trasformando in un incubo. Siccome il processo è irreversibile, nonostante i correttivi, i finanziamenti mirati, i contratti d’area, i lavori socialmente utili e altre ideazioni che la politica tenta di escogitare per scongiurare l’incubo, forse non c’è altra via d’uscita se non quella di ripensare il concetto di lavoro, che l’economia capitalistica da un lato e l’apparato tecnico dall’altro hanno a tal punto identificato con l’esistenza, da rendere a tutti evidente l’equazione secondo cui: chi non lavora, dal punto di vista sociale, non esiste.
Ma è davvero così? O questa equazione si legittima solo a partire dalla nozione di lavoro che l’economia capitalistica da un lato e l’apparato tecnico dall’altro hanno messo in circolazione, senza prendere minimamente in considerazione il fatto che, dietro ogni lavoro, c’è un uomo che lavora? Se Marx, a suo tempo, denunciava l’alienazione “nel” lavoro, che consiste nel completo appiattimento dell’uomo sulla sua attività lavorativa, come se questa fosse divenuta l’unico indicatore della riconoscibilità dell’uomo.
E allora la domanda che dobbiamo porci è quella che Francesco Totaro ci suggerisce: “i fini della tecnica e dell’economia capitalistica sono anche i nostri fini?”. O siamo noi diventati semplici strumenti della tecnica la quale ci impiegherebbe come momenti della sua organizzazione, semplici anelli insignificanti della sua catena, o, se preferiamo, mezzi imprescindibili, ma anche fra i più intercambiabili di qualsiasi altro mezzo, all’interno di un apparato economico-tecnologico divenuto fine a se stesso?
Se così non vogliamo essere, la proposta è quella di passare gradatamente dal “lavoro come produzione” (che ha in vista solo la sua crescita esponenziale, senza ragione e senza perché) al “lavoro come servizio”, dove la produzione non ha in vista solo beni e merci (di cui al limite non sappiamo neanche cosa farcene, se non fosse per i bisogni e i desideri “indotti”, cioè a loro volta “prodotti”), ma anche erogazione di tempo, di cura, di relazione.
I profili lavorativi che potrebbero nascere da questa nuova visualizzazione del lavoro (di cui la società già sente a livello massiccio l’esigenza, se dobbiamo giudicare dal gran numero di persone che si dedicano al volontariato) sarebbero profili lavorativi che potrebbero trovare non solo una reale e massiccia domanda, ma anche un significativo riconoscimento economico, se l’economia, che pensa sempre e solo alla produzione, sapesse diversificare i suoi prodotti e cominciare a produrre non solo merci e sempre più merci, ma anche e in misura crescente servizi per la persona e per la relazione tra le persone.
E questo anche perché la felicità, nonostante la pubblicità serva delle merci vi alluda, non ci viene dall’ultima generazione di detersivi, di telefonini o di computer, e più in generale di prodotti, ma da uno straccio di relazioni in più che il lavoro come “servizio” e non solo come “produzione” potrebbe cominciare a garantire.
U. Galimberti
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