Da qualche anno a questa parte Piero Angela pare avere abbandonato la scrittura di testi prettamente scientifici a vantaggio di testi un pò più indirizzati alle dinamiche sociali e del vivere comune. A tal proposito ho trovato molto interessante il suo ultimo saggio dal titolo “A cosa serve la politica?”, uno scritto di una attualità totale che ho condiviso in gran parte.
Il libro si apre con un esempio molto esplicativo. Prendiamo in considerazione due paesi come Svezia e Turchia, il primo con un reddito pro capite di 28000 euro, il secondo di soli 9000 euro. Ora se un politico turco alla vigilia delle elezioni prospettasse salari svedesi, ma anche pensioni, assistenza, asili nido ed ospedali di tipo svedese, potrebbe mantenere le sue promesse? Basterebbe che i cittadini turchi riempissero le piazze di cortei e scioperassero ad oltranza per ottenerli? Ovviamente no. Ebbene quanto ha inciso storicamente la politica perché tra Svezia e Turchia ci fosse un gap così evidente? In sostanza cosa fa sì che la Svezia sia la Svezia e la Turchia sia la Turchia?
In realtà dietro ogni paese si nasconde una macchina invisibile, racchiusa nel cervello degli individui, e che proietta nella società il suo sapere ed il suo saper fare. E’ la proiezione della nostra educazione, cultura, creatività, capacità imprenditoriale, organizzazione e dei nostri valori. Certe cose non si possono trasferire di colpo da un “ecosistema” ad un altro. Si possono trasferire i macchinari ma non i saperi. E sono questi ultimi a fare la differenza. La politica dunque gioca un ruolo solo se riesce a stimolare ed a far crescere questi saperi, di conseguenza la produzione di ricchezza e l’attrazione di investimenti.
Se guardiamo all’Italia si vede subito la mancanza di una politica moderna che sappia non solo distribuire ricchezza, ma anche aiutare a crearla valorizzando tutte quelle attività utili in tal senso: istruzione, ricerca, valori, pubblica amministrazione e quant’altro. E’ incredibile allora come in una società che vuole essere moderna e competitiva possa esistere in realtà una ricerca umiliata, un merito negato, dei valori calpestati, pochissimo sostegno all’innovazione creativa e all’eccellenza.
Basta pensare che attualmente in Italia gli addetti all’agricoltura sono intorno al 4 per cento della popolazione attiva, ma producono infinitamente più cibo del 78 per cento di contadini che il nostro paese annoverava nel 1861. Addirittura negli Stati Uniti oggi basta l’1 per cento della popolazione attiva per produrre cibo in abbondanza per tutti ed esportarne milioni di tonnellate. Anche gli addetti all’industria hanno cominciato a diminuire sempre più a partire dagli anni Settanta in avanti. Questo perché le macchine hanno sostituito progressivamente il lavoro umano. Succede allora che paradossalmente più un paese è industrializzato meno sono gli addetti all’industria. Ecco quindi che questa maggiore efficienza nel produrre cibo ed oggetti ha permesso ad un numero crescente di persone di trasferirsi in settori nuovi o in espansione: il cosiddetto terziario o terziario avanzato, si tratta cioè di lavoro prevalentemente intellettuale.
Il terziario è il tipico settore delle società avanzate, dove si trova tutto ciò che non è agricoltura o industria: per esempio i commerci, le banche, la sanità, lo sport, il turismo, l’informazione, l’arte, la ricerca etc. Nel terziario si sono creati milioni di posti di lavoro.
Secondo Angela nel nostro paese è ancora molto radicata l’idea che siano i programmi politici a cambiare le cose, che siano gli ideali, l’impegno, le lotte, a rendere possibili i cambiamenti. Questo è sicuramente vero per la distribuzione della ricchezza, per la giustizia sociale, per la protezione dei più deboli, per la difesa della democrazia. Se però si vuole portare il paese verso un vero sviluppo economico, occorre agire su quelle leve che lo rendono effettivamente possibile. Bisogna cioè equilibrare produzione e distribuzione di ricchezza. In Italia la politica appare completamente sbilanciata su come distribuire la ricchezza, è latitante invece sulla produzione di ricchezza, fino ad arrivare a distribuire più di quello che viene prodotto. Ecco allora che si ricorre al debito e si và in rosso, sempre più in rosso, in profondo rosso.
La storia recente ci dice che ricchezza e nuove tecnologie vanno di pari passo. Come può l’economia, specialmente nel nostro paese, andarsene per conto suo senza costantemente occuparsi e preoccuparsi della ricerca, che le fornisce le gambe per camminare? Insomma l’invenzione (e la ricerca che c’è alle spalle) sono, molto più di quanto si pensi, un fattore rivoluzionario nel cambiamento economico di una società. L’economia, come la politica, è molto importante per stimolare e guidare questo cambiamento, per orientare e gestire le trasformazioni che stanno avvenendo, ma senza tecnologia l’economia e la politica sarebbero prive del braccio operativo e non potrebbero cambiare molto la società. Ecco perché è pura follia quello che la politica sta facendo nel nostro paese, cioè investire poco o male in ricerca, lasciarsi scappare le menti migliori, non premiare il merito, non attrarre i ricercatori stranieri.
Noi non ce ne stiamo ancora accorgendo, ma in Asia sta crescendo una nuova generazione fortemente motivata a svettare, sottoposta a una severa selezione negli studi affinchè i migliori emergano. Da tempo è così in Giappone. In Corea del Sud lo sforzo educativo è in pieno sviluppo, le università indiane e cinesi hanno già sfornato scienziati di altissimo livello che occupano posizioni importanti negli Stati Uniti (e molti cinesi stanno ora rientrando per contribuire al boom del loro paese). Sono società che hanno capito l’immenso valore dei cervelli quando vengono messi in grado di esprimere al massimo la loro intelligenza, creatività, competenza.
Al contrario ancora oggi due terzi degli italiani adulti non comprano e non leggono libri. Su 50 milioni di abitanti adulti, 15 milioni sono lettori saltuari e soltanto 4 milioni sono lettori abituali (meno di un italiano su dodici). Non c’è da sorprendersi quindi se la politica che è in ogni caso espressione della società, spesso preoccupata solo di guadagnarsi il consenso per una rielezione, si muova in un’altra direzione.
Diretta conseguenza di tutto ciò è la cosiddetta de-meritocrazia. In Italia il merito non è sufficientemente riconosciuto. Le carriere sono spesso fortemente facilitate da conoscenze personali, da connessioni familiari, da amicizie, da appartenenze politiche. Se al contrario un paese premia il merito a tutti i livelli crea le condizioni per migliorare il funzionamento della società e questo aiuta a migliorare anche la sua competitività. Questi parametri contano quando a livello internazionale si dà un giudizio sulla vitalità del nostro paese, e quindi sull’attrazione e l’affidabilità che possono avere, ad esempio, i nostri titoli di Stato. L’European House dello Studio Ambrosetti di Milano ha pubblicato uno studio proprio sul problema del merito in Italia dal quale si evincono i principali elementi che tolgono spazio al merito: l’affiliazione (in particolare il nepotismo e la raccomandazione), gli automatismi, quando l’avanzamento nella carriera poggia solamente sull’anzianità di servizio, la circolarità, quando c’è conflitto d’interesse tra controllori e controllati (per esempio quando i componenti di enti o agenzie che dovrebbero controllare l’attività governativa vengono nominati dal governo stesso) e l’opacità, cioè la mancanza di trasparenza nelle assunzioni e nelle promozioni, quando sfuggono a criteri di chiarezza e lasciano spazio a scelte discrezionali. Una ricerca in tal proposito rivela l’ampiezza di questo fenomeno: un italiano su due dichiara di aver trovato lavoro grazie ad amicizie/raccomandazioni; solo il 5 per cento lo ha fatto attraverso agenzie o cacciatori di teste. Inoltre un italiano su quattro si rivolge ad un politico per ottenere la soluzione di un suo problema. In questo contesto la politica ha una gravissima responsabilità, perché la de-meritocrazia che impera da noi è uno di quegli inquinamenti che avvelenano “l’ecosistema” nel quale viviamo, e ci rende più vulnerabili, anche nei confronti della competizione internazionale.
Troppo spesso la classe politica non premia il merito ma l’appartenenza, l’affiliazione. In questo modo infatti può piantare ogni volta una bandierina, propria o del partito. Questo non vale solo per i livelli alti, ma scende fino giù a quelli più bassi. I liberi pensatori sono visti come una minaccia per i clan del consenso, vengono sistematicamente preferiti gli yes men (quelli che dicono sempre di si).
In tal modo la politica è penetrata profondamente nell’apparato pubblico, gonfiando a dismisura la burocrazia. Da uno studio della UIL emerge che in Italia ben 1 milione e trecentomila persone vivono di politica, se si aggiungono i loro familiari si arriva ad una cifra molto consistente. Inoltre rispetto agli altri paesi europei l’Italia spende il 30 per cento in più per la politica.
La conoscenza sempre più diffusa di questo fenomeno, grazie ad una campagna stampa molto aggressiva in tal senso, ha prodotto oggi una generale tendenza a colpevolizzare in blocco tutti coloro che fanno politica. In realtà ci sono tantissime persone che si dedicano con passione e spirito di servizio alla politica. Ad ogni livello esistono persone che si impegnano seriamente senza trarre vantaggi personali, cercando di dare il proprio contributo alla collettività. E sono proprio loro i primi a soffrire per la pessima reputazione della classe politica italiana e per l’esempio che essa dà al paese. Leggiamo tutti i giorni dei suoi costi altissimi, dei privilegi di cui gode, delle accuse di corruzione, delle garanzie e delle impunità di cui godono i suoi membri, al di là della decenza. E non è certo piacevole trovarsi accomunati a questo mucchio.
Il problema vero restano tuttavia i risultati. L’attuale tipo di politica è dannosa perché non produce ricchezza per il paese, non crea le condizioni per uno sviluppo adatto alle sfide del mondo moderno, soprattutto riempie il paese di debiti.
In definitiva non può essere messo in discussione il fondamentale ruolo della politica, ma questo và inteso nel senso di delineare gli scenari strategici futuri, nelle scelte di fondo, nel sostegno a tutto ciò che può garantire crescita e ricchezza, oltre che una sua, quanto più equa possibile, distribuzione. La politica dovrebbe limitarsi ad un ruolo di indirizzo e di guida quindi, oltre che di presidio delle garanzie democratiche. Dovrebbe essere più agile nel suo apparato, meno articolata, senza “professionisti” del mestiere. Non dovrebbe mai sostituirsi all’economia, diventare ingerente, peggio ancora diventare tutt’uno.
Felice Marino
aliama1@yahoo.it
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