Quello del lavoro, e delle norme che lo disciplinano, è sicuramente uno dei temi più dibattuto sulla scena politica italiana ed europea di questi ultimi anni. La crisi economica su scala globale, innescata dai mutui sub-prime americani, ha trasformato la questione del lavoro in un’emergenza che non può essere ulteriormente elusa. Nel mondo occidentale le ragioni della sempre maggiore difficoltà nel trovare un’occupazione, nonchè della fuoriuscita dal mercato del lavoro di milioni di occupati, vengono spesso identificate nella globalizzazione e nella concorrenza di paesi dove il costo della manodopera è molto più basso, nelle importazioni a buon mercato e nelle delocalizzazioni di tante aziende occidentali che hanno trasferito produzione e servizi oltre i confini. Tutto vero, ma quello che spesso si tace è che la causa più profonda della diffusione della disoccupazione è l’aumento vertiginoso della produzione, garantito in ultima istanza dalla tecnologia e dalle macchine.
Se ne occupa in un bellissimo saggio dal titolo “La fine del lavoro” Jeremy Rifkin, di cui mi sono già interessato commentando il suo più recente “La civiltà dell’empatia”. “La fine del lavoro” ha circa quindici anni di vita, ma è di un’attualità e di una capacità profetica davvero notevole. Già quindici anni fa, quando una crisi economica come quella attuale sembrava una possibilità impossibile a realizzarsi, egli individuava nel futuro dell’occupazione la questione cruciale del nostro tempo. Nell’introduzione dell’ultima ristampa del 2004 l’americano Rifkin scriveva: “Ogni Paese è alle prese con un vasto dibattito sul futuro del lavoro. Fa i conti con problemi come un’alta disoccupazione, tasse esose, pesanti sistemi di previdenza sociale e contorti regimi regolativi, che secondo alcuni non fanno che perpetuare la stagnazione economica. Mentre i politici e i leader del mondo degli affari e del lavoro si accapigliano su come elaborare una politica del lavoro flessibile, abbassare le tasse e riscrivere le regole che governano previdenza sociale e assegnazione delle pensioni, la vera causa della disoccupazione globale non viene affrontata nel dibattito politico pubblico. Se la chiave per la creazione di nuovi posti di lavoro fosse solo l’attuazione delle riforme menzionate, allora gli Stati Uniti dovrebbero sperimentare un’occupazione massiccia. Dopo tutto , abbiamo effettivamente fatto tutte le riforme che altri paesi stanno cercando ora di realizzare. Eppure i lavoratori americani se la passano male.”
Attuale, no? Va aggiunto che gran parte del miracolo economico americano dei tardi anni Novanta fu dovuto essenzialmente ad un’estensione senza precedenti del credito al consumo, che ha consentito agli americani di aumentare follemente le spese, ma poi, come la crisi dei sub-prime ha dimostrato, i nodi sono venuti al pettine e parte di questo debito ormai fuori controllo è stato regalato a milioni di risparmiatori ignari in giro per il mondo.
E allora la vera questione è: se gli straordinari progressi nella produttività, nella forma di una tecnologia meno costosa e di più efficienti metodi di organizzazione del lavoro possono sempre più prendere il posto dell’operare dell’uomo, con la fuoriuscita di un sempre maggior numero di persone dal mondo del lavoro come risultato, da dove verrà la domanda di beni di consumo sufficiente a comprare tutti i nuovi prodotti e i servizi potenziali resi disponibili dall’aumento della produttività? In realtà siamo costretti ad affrontare una contraddizione inerente al cuore stesso del capitalismo, presente dal principio, ma che solo ora sta diventando inconciliabile. Infatti il capitalismo di mercato è in parte costituito sulla logica della riduzione dei costi del fattore produttivo, incluso il costo del lavoro, al fine di creare sempre maggiori margini di profitto. C’è una continua ricerca di nuove tecnologie meno costose e più efficienti per abbattere i salari o eliminare del tutto la manodopera umana. Le nuove tecnologie intelligenti possono sostituire buona parte del lavoro umano, sia fisico che intellettuale. La contraddizione sta nel fatto che estremizzando tutto questo rischiamo di avere supermercati pieni di merci, che nessuno però è in grado di comprare.
Naturalmente la nuova era porterà con sé ogni genere di nuovi beni e servizi che, a loro volta, richiederanno nuove abilità occupazionali, soprattutto nell’arena della conoscenza più sofisticata. Questi nuovi posti di lavoro, tuttavia, per loro natura, saranno rari ed elitari. Non vedremo mai più migliaia di lavoratori affollarsi all’uscita dei cancelli della fabbrica e dai centri di servizi come succedeva nel ventesimo secolo.
La prima vittima delle tecnologie intelligenti è stata l’agricoltura. Oggi negli Stati Uniti solo il 2,7% della popolazione è occupata direttamente o indirettamente nel settore agricolo. Secondo gli esperti, la possibilità di una completa automazione di tutti i processi produttivi di un’azienda agricola non dista più di vent’anni. Inoltre nel prossimo mezzo secolo l’agricoltura tradizionale è probabilmente destinata a sparire, vittima delle forze tecnologiche che stanno rapidamente sostituendo le attività agricole all’aperto con la manipolazione delle molecole nei laboratori. Mentre la prima rivoluzione tecnologica agricola comportò la sostituzione della forza animale e del lavoro umano con macchine ed agenti chimici, l’emergente rivoluzione biotecnologica giungerà presto a sostituire la coltivazione della terra con le colture di laboratorio, cambiando per sempre il modo in cui il mondo vede la produzione di cibo.
Anche l’industria è destinata in tempi rapidi a sperimentare un’occupazione prossima a quella del settore agricolo. La robotica ha reso l’idea della fabbrica senza operai un obiettivo raggiungibile, in alcuni casi già sperimentato.
Le nuove tecnologie, infatti, stanno aiutando tante aziende dei paesi occidentali a competere in termini di costo con quelle che operano nei paesi del Terzo mondo e che beneficiano di manodopera a costi contenuti. Quanto più il processo produttivo si conforma al dettato dell’automazione, tanto più anche paesi esportatori come la Cina e l’India saranno costretti ad adeguarsi a metodologie di produzione meccanizzata più veloci ed economiche rispetto alle tradizionali tecniche ad elevata intensità di lavoro. Non è un caso che in quasi tutte le più importanti attività manifatturiere, il lavoro umano è stato massicciamente sostituito da surrogati meccanici. Oggi milioni di uomini e donne si ritrovano chiusi in trappola tra due ere economiche, sempre più marginalizzati dall’avvento di nuove tecnologie. La figura classica dell’operaio della catena di montaggio è una figura destinata all’estinzione.
Un effetto apparentemente sottostimato sta nel fatto che le nuove tecnologie informatiche iniziano rapidamente a conquistare spazio anche nel terziario, il cosiddetto settore dei servizi, il settore che di fatto ha accolto sino ad oggi milioni di occupati fuoriusciti dal settore agricolo ed industriale. Le nuove macchine pensanti sono capaci di eseguire molte delle mansioni intellettuali che oggi vengono svolte dagli esseri umani, con il vantaggio della maggiore velocità. L’ufficio completamente digitalizzato non è affatto un’utopia. Già oggi, in tante realtà, l’assistenza ai clienti è gestita da un sistema di posta vocale e lo sarà sempre di più. Nei centri commerciali l’automazione alle casse ed in tanti altri servizi minaccia di “disoccupare” migliaia di persone. Per non parlare della rete, dell’autostrada informatica che è pronta ad offrire un’alternativa a basso costo anche nel settore del commercio, della conoscenza e delle arti (incluso la musica, il cinema etc. ). L’e-commerce è sempre più una realtà e sta completamente rivoluzionando il sistema commerciale tradizionale.
Quale scenario abbiamo dunque davanti a noi? Il sogno della liberazione dal lavoro rischia di trasformarsi in un incubo per milioni di lavoratori? Liberare intere generazioni dalle lunghe ore trascorse sul posto di lavoro potrebbe annunciare un secondo Rinascimento per la razza umana oppure portare a una grande divisione ed allo sconvolgimento sociale.
Rifkin intravede due possibili scenari, uno distopico (negativo) ed uno utopico (positivo). Il fatto che la visione del futuro futuro sia distopica o utopica dipende, in larga misura, da come verranno ripartiti i guadagni conseguiti grazie alla maggiore produttività. Una distribuzione ispirata a principi di giustizia ed equità prevederebbe una diminuzione dell’orario lavorativo in tutto il mondo e uno sforzo concertato dei governi centrali per fornire alternative di occupazione nel “terzo settore” (l’economia sociale) agli individui espulsi dal mercato del lavoro. Se, invece, i guadagni di produttività realizzati grazie alle alte tecnologie non venissero condivisi (ma utilizzati prevalentemente per incrementare i profitti d’impresa, a esclusivo beneficio di azionisti e top-managers) ci sono ampie probabilità che la crescente spaccatura tra ricchi e poveri conduca a sollevazioni sociali su scala mondiale.
Lo scenario distopico è facilmente intuibile e trova una sua spia accesa nel drammatico aumento della criminalità e della violenza diffusa, tanto nei paesi industrializzati quanto in quelli emergenti. Esse danno una chiara immagine dei pericoli che ci aspettano. L’aumento delle comunità-fortezza riflette sia la preoccupazione per la sicurezza personale quanto il rifiuto delle responsabilità di fronte alla società. Il futuro di milioni di persone estromesse dal mercato del lavoro può, secondo molti analisti, essere ben rappresentato dal destino della gente di colore urbanizzata negli Stati Uniti, storicamente vittima prima delle nuove tecnologie agrarie negli stati del sud e poi dell’avvento dell’automazione e delle macchine a controllo numerico nell’industria degli stati del nord. Le conseguenze sono lucidamente descritte dallo studioso Nathan Gardel :” Dal punto di vista del mercato, i ranghi sempre più grandi dei disoccupati devono affrontare un destino persino peggiore del colonialismo, vale a dire l’irrilevanza economica. Non abbiamo bisogno di ciò che offrono e loro non possono comprare ciò che noi vendiamo. E’ prevedibile per loro un futuro sempre più lontano dalla legalità e dalla giustizia, in un mondo caratterizzato da isole di ordine in un oceano di caos”.
Al contrario lo scenario utopico, secondo Rifkin, non può che essere ispirato dalla necessità di evitare la suddivisione della società tra chi ha un lavoro e non ce l’ha. L’esperienza francese sulla riduzione dell’orario di lavoro, in cambio di sgravi alle imprese, è stata forse troppo frettolosamente archiviata. Le rivendicazioni dei lavoratori sui profitti, in forma di salari più alti e riduzioni di orario, sono sempre state considerate illegittime e perfino parassitarie. E’ possibile che la resistenza delle imprese si attenui davanti alla consapevolezza della necessità di saldare la frattura tra la maggiore capacità produttiva e la caduta del potere d’acquisto dei consumatori. Michael Hammer sostiene però, probabilmente a ragion veduta, che la riduzione dell’orario lavorativo si può fare solo se applicata da tutti. In caso contrario non si fa altro che innalzare il costo del prodotto. Egli ipotizza un sistema di tariffe doganali determinato sulla base di un indice che misura il livello delle retribuzioni e delle ore lavorate nei paesi di provenienza dei beni esportati.
In realtà accordi come il GATT, Mastricht ed il NAFTA hanno cambiato il rapporto tra governi e commercio, trasferendo sempre più potere dagli stati nazionali alle imprese globali. Il ruolo geopolitico dello stato nazionale si va affievolendo, lo stesso accade per la sua funzione di datore di lavoro di ultima istanza. Messi in difficoltà dal crescente indebitamento a lungo termine e dal deficit di bilancio, gli stati sono meno disposti ad imbarcarsi in ambiziosi progetti di spesa e di lavori pubblici al fine di creare occupazione e stimolare il potere d’acquisto. Molti allora guardano al terzo settore, altrimenti noto come indipendente e volontario, dove la cessione volontaria del proprio tempo prende il posto delle relazioni di mercato imposte artificialmente e fondate sulla vendita di se stessi e dei propri servizi agli altri. Il terzo settore già occupa un’ampia porzione della vita sociale. Le attività di volontariato spaziano dai servizi sociali all’assistenza sanitaria, dall’istruzione alla ricerca, alle arti, alla religione, alla difesa legale. Negli Stati Uniti il terzo settore contribuisce all’economia del paese per il 6%, è responsabile del 9% dell’occupazione, ha un patrimonio netto quasi equivalente a quello del governo federale. Questo è reso possibile dal fatto che la maggior parte delle organizzazioni che non hanno scopo di lucro sono esentate dal pagamento delle imposte e che chi dona a loro beneficio può dedurre integralmente dal reddito imponibile.
Il servizio alla collettività è un’alternativa rivoluzionaria alle forme tradizionali di lavoro. E’ prima di tutto un atto di aiuto, un offrirsi agli altri, uno scambio sociale, sebbene abbia spesso conseguenze economiche sia per il beneficiario, sia per il benefattore. A questo riguardo l’attività comunitria è sostanzialmente differente da quella di mercato, nella quale lo scambio è sempre di natura materiale e finanziaria e le conseguenze sociali sono meno rilevanti dei guadagni economici. Oggi, in tanti paesi occidentali, le organizzazioni del volontariato servono milioni di persone in tanti quartieri e comunità; la loro estensione spesso oscura il privato ed il pubblico, toccando e condizionando la vita di tanti cittadini, talvolta più profondamente di quanto facciano le forze del mercato e la burocrazia statale.
Se per chi lavora e si dedica al volontariato si è proposto una sorta di salario ombra, sottoforma di esenzioni e deducibilità, per chi non lavora si è parlato di un vero e proprio salario sociale che sostituisca le varie indennità o sussidi. Piuttosto che elargire denaro a fondo perso si potrebbe trasformare il sussidio in un servizio alla collettività. Un salario sociale non sarebbe di conforto solo a chi lo riceve, ma anche utile all’intera comunità che beneficia di tali attività volontaristiche.
D’altra parte già l’economista Robert Theobald sosteneva che, dal momento che l’automazione avrebbe continuato ad aumentare la produttività e ad eliminare lavoratori, sarebbe stato necessario rompere il tradizionale legame tra reddito e lavoro. Con una quota sempre maggiore di lavoro svolto dalle macchine, gli esseri umani avrebbero avuto la necessità di un reddito garantito, indipendentemente dall’occupazione nell’economia di mercato. Ciò per sopravvivere e per disporre di un potere d’acquisto sufficiente a procurarsi beni e servizi. Secondo Theobald il reddito minimo garantito rappresentava la possibilità di mettere in pratica quella convinzione filosofica fondamentale che attribuisce ad ogni individuo il diritto ad una quota minima della produzione realizzata nella società.
La proposta di un reddito minimo garantito ha trovato incredibilmente favorevole anche Milton Friedman, il più celebre tra gli economisti neoconservatori, che sosteneva, da un diverso punto di vista, che sarebbe stato meglio dare ai poveri un reddito minimo garantito, piuttosto che continuare a finanziare la pletora di programmi sociali di stato, talmente burocratizzati da perpetuare la povertà invece che lenirla.
I riformatori di oggi, come accennato prima, tendono ad agganciare il diritto ad una garanzia di reddito alla disponibilità del disoccupato a prestare attività di volontariato nel terzo settore. L’economia sociale pare rappresentare l’ultima speranza di costruire una struttura istituzionale alternativa per una civiltà in transizione.
In definitiva ci stiamo affacciando in una nuova era di mercati globali e produzione automatizzata, dalla strada che imboccheremo dipenderà il nostro futuro.
Felice Marino
aliama1@yahoo.it
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