sabato 26 febbraio 2011

Bistrot Philo 10a puntata. "Il senso del dolore"

Ecco a voi lo "spunto" di U. Galimberti per la decima puntata di Bistrot Philo che andrà in onda su RadioAntares giovedi 3 Marzo alle 2200. Aspetto i vostri commenti.

IL SENSO DEL DOLORE

Di fronte al dolore, alla sofferenza e al male della terra che risulta difficile giustificare, l’umanità ha sempre pensato di essere decaduta: da una condizione paradisiaca nella versione giudaico-cristiana, da un’età dell’oro dove non c’erano pene e dolori in altre tradizioni, da una condizione celeste dove l’anima viveva non imprigionata nei limiti del corpo nella tradizione filosofica inaugurata da Platone.
Ma solo nella tradizione giudaico-cristiana questa caduta, ipotizzata per giustificare il dolore e le pene di questa terra, viene connessa a una “colpa” che chiede riparazione ed è suscettibile di redenzione. In tale visione il dolore è “castigo” e a un tempo “evento purificatore”. Come tale concorre alla redenzione ed alla salvezza. In tale prospettiva il dolore non è pensato come costitutivo dell’esistenza, ma della colpa dell’esistenza e insieme come mezzo del suo riscatto.
Per la cultura greca il dolore non è la conseguenza di una colpa, ma il costitutivo dell’esistenza, di cui bisogna accogliere per intero la caducità, senza illudersi con speranze ultraterrene o con ipotesi di salvezza da colpe originarie. Accolta la caducità dell’esistenza, occorre poi imparare a vivere tutta l’espansione della vita e tutto il suo contrarsi, perché questa è la condizione del mortale che nessuna narrazione mitica o religiosa può modificare.
Se  la sofferenza, come vuole il cristianesimo, è la conseguenza di una colpa suscettibile di redenzione, questa terra e l’esistenza che su questa terra si compie sono vissute come un transito. Il futuro atteso lenisce la crudeltà del dolore, perché chi oggi soffre, domani sarà liberato. In tale prospettiva il dolore non è più pensato come qualcosa che ineluttabilmente appartiene alla vita, ma come qualcosa che è capitato alla vita terrena in seguito a una colpa, e quindi come qualcosa di fondamentalmente separato dalla vita. Ciò significa che la vera vita non conosce il dolore, e se sulla terra la vita non è esente dal dolore è solo perché la vita sulla terra non è quella vera, quella per cui siamo nati. Ciò comporta una svalutazione della vita terrena: “valle di lacrime” che, come dice Isaia, trova la sua giustificazione nell’attesa di “nuovi cieli e nuove terre”. Per questo, essendo pegno di salvezza, per la tradizione giudaico-cristiana il dolore non va solo sopportato, ma anche amato.
A differenza di quella cristiana, la cultura greca non ama il dolore, perché ama la vita e tutto quanto può concorrere ad accrescerla e potenziarla. Ma, a differenza di noi moderni, con misura, perché, senza misura, ogni virtù degenera. La virtù non ha per il greco il significato della mortificazione e del sacrificio, ma, come la virtus latina, è la capacità di eccellere, di essere migliore, per cui non si dà virtù senza lotta. La lotta non la si ingaggia solo con il nemico, ma anche con lo stato di bisogno, con la necessità, a cui occorre far fronte, con la sorte che, se infausta, è minacciosa. Per cui la virtù è la capacità di dominare il caso, di imprimere alla cattiva sorteuna svolta positiva.
Per il Greco, dunque, dal dolore, visualizzato non nella modalità cristiana dell’espiazione della colpa, ma della modalità tragica dell’ineluttabilità della legge di natura, nascono quelle due forme, non di rassegnazione, ma di resistenza al dolore che sono: il “sapere” che consente di evitare il male evitabile, e la virtù che consente, entro certi limiti, di dominare il dolore.
Perché la virtù, qui intesa come forza e coraggio di vivere al di là delle avversità, sia efficace, è necessaria la misura, senza la quale anche la forza e il coraggio di vivere vanno incontro alla sconfitta, perché l’uomo che vuole andare oltre il proprio limite decide anche la sua fine. Quando diviene tracotante la sua forza volge in debolezza, la sua felicità in sciagura. Per questo la virtù chiede all’uomo di essere attento al suo limite, perché l’uomo non può diventare immortale come un dio, ma con il modello immortale del dio deve restare in tensione, per generare, come dice Dante, riprendendo il mito greco di Ulisse, virtù e conoscenza.
A voi la scelta a quale visione del mondo appartenere: se a quella colpevolizzante del cristianesimo o a quella tragica ma insieme estetica dei Greci.

venerdì 4 febbraio 2011

"Dietro le Parole" estratto da "Il mondo dell'incredibile 3a puntata"

Curiosità. Dietro le parole:

Ciao:
E’ l’italianizzazione del vocabolo dialettale veneziano s-ciao, che significa “schiavo”, termine a sua volta derivato da “slavo” perché spesso i prigionieri di guerra della Slavonia trasferiti a Venezia dovevano adattarsi a umili mestieri. Dunque, all’epoca in cui era abitudine salutare in modo deferente dichiarandosi con enfasi “servo vostro”, e cioè a disposizione dell’interlocutore, i veneziani esclamavano “S-ciao!”, “schiavo vostro”, e quindi “ciao”, come ancora oggi si dice non solo nella nostra lingua, ma anche in tanti altri paesi del mondo dove il termine italiano è piaciuto ed ha attecchito con facilità tra i giovani.

Denaro:
Viene dal termine latino denarius, derivato a sua volta da deni, aggettivo numerale distributivo che significava “ a dieci a dieci “, “dieci alla volta”. E infatti il denarius dei Romani era in origine una moneta d’argento del valore di dieci “assi”. “Moneta” è invece un termine che deriva dal Tempio di Giunone Moneta, cioè “ammonitrice”, dal verbo monere , ammonire, presso il quale sorse in Roma antica la prima zecca per coniare, appunto, monete. Il tempio di Giunone Moneta sorgeva presso il Campidoglio.

Gazzetta:
Innumerevoli giornali recano questo titolo, che si pensa derivi dall’italiano antico gazetta, nome di una piccola moneta che costituiva il prezzo di un giornale governativo pubblicato a Venezia nel 1536. Ma il termine potrebbe anche derivare da “gazza”, inteso come “chiacchiera”.

Bistrot Philo 9a puntata. "Il nichilismo sotteso alla cultura del consumo"

Ciao a tutti, ecco a voi "lo spunto" per la 9a puntata di Bistrot Philo che andrà in onda in diretta giovedi 10 Febbraio alle ore 2200 su Radioantares. Aspetto i vostri contributi!


Questa nostra società, che tutti definiscono complessa, a me pare molto semplice, anzi semplificata, perché ha nel denaro l’unico generatore simbolico di tutti i valori. Che cos’è bello, cos’è santo, cos’è giusto, cos’è vero sono infatti tutti valori subordinati a cos’è utile, cos’è vantaggioso, dove la misura è il denaro, che, da “mezzo” per produrre beni e soddisfare bisogni, è diventato il “fine”, in vista del quale si producono beni e, se la cosa concorre a questo scopo, si soddisfano bisogni. E’ noto infatti che produzione e consumo sono due aspetti di un medesimo processo, nel senso che non solo si producono merci per soddisfare bisogni, ma si producono anche bisogni per garantire la continuità della produzione delle merci che assicurano denaro.
All’inizio e alla fine di queste catene di produzione ( di merci e di bisogni in vista del denaro ) si trovano gli esseri umani, instaurati come produttori e come consumatori, con l’avvertenza che il consumo non deve essere più considerato, come avveniva per le generazioni precedenti, esclusivamente come soddisfazione di un bisogno, ma anche, e oggi soprattutto, come mezzo di produzione. Là infatti dove la produzione non tollera interruzioni, le merci “hanno bisogno” di essere consumate, e se il bisogno non è spontaneo, se di queste merci non si sente il bisogno, occorrerà che questo bisogno sia “prodotto”.
A ciò provvede la pubblicità, che ha il compito di pareggiare il nostro bisogno di merci con il bisogno delle merci di essere consumate. I suoi inviti sono esplicite richieste a rinunciare agli oggetti che già possediamo, e che magari ancora svolgono un buon servizio, perché altri nel frattempo ne sono sopraggiunti, altri che “non si può non avere”. In una società opulenta come la nostra, dove l’identità di ciascuno è sempre più consegnata agli oggetti che possiede, i quali non solo sono sostituibili, ma “devono” essere sostituiti, ogni pubblicità è un appello alla distruzione.
Si conferma così il tratto nichilista della nostra cultura economica, che eleva il non-essere di tutte le cose a condizione della sua esistenza. Il loro non permanere a condizione del suo avanzare e progredire. E come allora non dar ragione a Gunther Anders, che ipotizza la nientificazione delle cose come primo passo verso la nientificazione dell’umanità, naturalmente quella esclusa dalla circolazione del denaro, quella non produttiva, quella che non consuma?
U. Galimberti