IL SENSO DEL DOLORE
Di fronte al dolore, alla sofferenza e al male della terra che risulta difficile giustificare, l’umanità ha sempre pensato di essere decaduta: da una condizione paradisiaca nella versione giudaico-cristiana, da un’età dell’oro dove non c’erano pene e dolori in altre tradizioni, da una condizione celeste dove l’anima viveva non imprigionata nei limiti del corpo nella tradizione filosofica inaugurata da Platone.
Ma solo nella tradizione giudaico-cristiana questa caduta, ipotizzata per giustificare il dolore e le pene di questa terra, viene connessa a una “colpa” che chiede riparazione ed è suscettibile di redenzione. In tale visione il dolore è “castigo” e a un tempo “evento purificatore”. Come tale concorre alla redenzione ed alla salvezza. In tale prospettiva il dolore non è pensato come costitutivo dell’esistenza, ma della colpa dell’esistenza e insieme come mezzo del suo riscatto.
Per la cultura greca il dolore non è la conseguenza di una colpa, ma il costitutivo dell’esistenza, di cui bisogna accogliere per intero la caducità, senza illudersi con speranze ultraterrene o con ipotesi di salvezza da colpe originarie. Accolta la caducità dell’esistenza, occorre poi imparare a vivere tutta l’espansione della vita e tutto il suo contrarsi, perché questa è la condizione del mortale che nessuna narrazione mitica o religiosa può modificare.
Se la sofferenza, come vuole il cristianesimo, è la conseguenza di una colpa suscettibile di redenzione, questa terra e l’esistenza che su questa terra si compie sono vissute come un transito. Il futuro atteso lenisce la crudeltà del dolore, perché chi oggi soffre, domani sarà liberato. In tale prospettiva il dolore non è più pensato come qualcosa che ineluttabilmente appartiene alla vita, ma come qualcosa che è capitato alla vita terrena in seguito a una colpa, e quindi come qualcosa di fondamentalmente separato dalla vita. Ciò significa che la vera vita non conosce il dolore, e se sulla terra la vita non è esente dal dolore è solo perché la vita sulla terra non è quella vera, quella per cui siamo nati. Ciò comporta una svalutazione della vita terrena: “valle di lacrime” che, come dice Isaia, trova la sua giustificazione nell’attesa di “nuovi cieli e nuove terre”. Per questo, essendo pegno di salvezza, per la tradizione giudaico-cristiana il dolore non va solo sopportato, ma anche amato.
A differenza di quella cristiana, la cultura greca non ama il dolore, perché ama la vita e tutto quanto può concorrere ad accrescerla e potenziarla. Ma, a differenza di noi moderni, con misura, perché, senza misura, ogni virtù degenera. La virtù non ha per il greco il significato della mortificazione e del sacrificio, ma, come la virtus latina, è la capacità di eccellere, di essere migliore, per cui non si dà virtù senza lotta. La lotta non la si ingaggia solo con il nemico, ma anche con lo stato di bisogno, con la necessità, a cui occorre far fronte, con la sorte che, se infausta, è minacciosa. Per cui la virtù è la capacità di dominare il caso, di imprimere alla cattiva sorteuna svolta positiva.
Per il Greco, dunque, dal dolore, visualizzato non nella modalità cristiana dell’espiazione della colpa, ma della modalità tragica dell’ineluttabilità della legge di natura, nascono quelle due forme, non di rassegnazione, ma di resistenza al dolore che sono: il “sapere” che consente di evitare il male evitabile, e la virtù che consente, entro certi limiti, di dominare il dolore.
Perché la virtù, qui intesa come forza e coraggio di vivere al di là delle avversità, sia efficace, è necessaria la misura, senza la quale anche la forza e il coraggio di vivere vanno incontro alla sconfitta, perché l’uomo che vuole andare oltre il proprio limite decide anche la sua fine. Quando diviene tracotante la sua forza volge in debolezza, la sua felicità in sciagura. Per questo la virtù chiede all’uomo di essere attento al suo limite, perché l’uomo non può diventare immortale come un dio, ma con il modello immortale del dio deve restare in tensione, per generare, come dice Dante, riprendendo il mito greco di Ulisse, virtù e conoscenza.
A voi la scelta a quale visione del mondo appartenere: se a quella colpevolizzante del cristianesimo o a quella tragica ma insieme estetica dei Greci.