Questa nostra società, che tutti definiscono complessa, a me pare molto semplice, anzi semplificata, perché ha nel denaro l’unico generatore simbolico di tutti i valori. Che cos’è bello, cos’è santo, cos’è giusto, cos’è vero sono infatti tutti valori subordinati a cos’è utile, cos’è vantaggioso, dove la misura è il denaro, che, da “mezzo” per produrre beni e soddisfare bisogni, è diventato il “fine”, in vista del quale si producono beni e, se la cosa concorre a questo scopo, si soddisfano bisogni. E’ noto infatti che produzione e consumo sono due aspetti di un medesimo processo, nel senso che non solo si producono merci per soddisfare bisogni, ma si producono anche bisogni per garantire la continuità della produzione delle merci che assicurano denaro.
All’inizio e alla fine di queste catene di produzione ( di merci e di bisogni in vista del denaro ) si trovano gli esseri umani, instaurati come produttori e come consumatori, con l’avvertenza che il consumo non deve essere più considerato, come avveniva per le generazioni precedenti, esclusivamente come soddisfazione di un bisogno, ma anche, e oggi soprattutto, come mezzo di produzione. Là infatti dove la produzione non tollera interruzioni, le merci “hanno bisogno” di essere consumate, e se il bisogno non è spontaneo, se di queste merci non si sente il bisogno, occorrerà che questo bisogno sia “prodotto”.
A ciò provvede la pubblicità, che ha il compito di pareggiare il nostro bisogno di merci con il bisogno delle merci di essere consumate. I suoi inviti sono esplicite richieste a rinunciare agli oggetti che già possediamo, e che magari ancora svolgono un buon servizio, perché altri nel frattempo ne sono sopraggiunti, altri che “non si può non avere”. In una società opulenta come la nostra, dove l’identità di ciascuno è sempre più consegnata agli oggetti che possiede, i quali non solo sono sostituibili, ma “devono” essere sostituiti, ogni pubblicità è un appello alla distruzione.
Si conferma così il tratto nichilista della nostra cultura economica, che eleva il non-essere di tutte le cose a condizione della sua esistenza. Il loro non permanere a condizione del suo avanzare e progredire. E come allora non dar ragione a Gunther Anders, che ipotizza la nientificazione delle cose come primo passo verso la nientificazione dell’umanità, naturalmente quella esclusa dalla circolazione del denaro, quella non produttiva, quella che non consuma?
U. Galimberti
Difficile non dare ragione, parzialmente a Galimberti. Rinunciare a un oggetto che possiedo e che funziona ancora, anche se compaiono versioni più moderne, più fighe, arricchite di funzioni nuove ma che non sono indispensabili, non lo faccio se lo decido. Comprarmi scarpe viola perché sono di moda, con la punta aggressiva, non lo faccio se non mi piacciono e semplicemente per essere alla moda. Tanto, prima o poi la moda cambierà, e le dovrò buttare. Tanto, prima o poi, comparirà un altro oggetto ancora più figo, più moderno, più completo.
RispondiEliminaDiversa è la situazione se mi dicono "signora non conviene riparare questo elettronico, le costa di più che comprarne uno nuovo".. se, quando sostituisco il mio televisore che aveva più di vent'anni, mi dicono "questo qui non durerà altrettanto! .. quanto ? una decina, al massimo .... "..
Il fatto è che sono i giovani ad essere oramai abituati ad avere quello che vogliono e a buttare quello che non amano più. Le persone della mia età possono fare (e fanno) cose per sfuggire per quanto possibile a questa nientificazione .. Ma se i genitori non riescono a fare passare il messaggio di che cosa è bello, cosa è giusto, cosa è utile... ci prepariamo a un futuro triste..
Una volta dichiaratisi d’accordo con l’analisi di Umberto Galimberti la questione che si pone è come iniettare massicce dosi di coerenza nei propri comportamenti quotidiani. E, soprattutto, come non farsi influenzare dalle sirene consumistiche che ci attraggono ogni giorno, spesso senza averne piena consapevolezza.
RispondiEliminaUscire dal cerchio del consumismo richiede coraggio. Perché da una parte si deve fare i conti con il giudizio sociale, che spesso emargina o dileggia chi non partecipa alla corsa consumistica, e dall’altra è necessario liberarsi dal “conforto” che spesso l’acquisto di un oggetto ci regala. Anche se questo conforto è un succedaneo di altri bisogni affettivi autentici.
Liberarsi dall’attrazione del consumo, inteso come necessità di immergersi in un flusso permanente di cambiamenti, implica, anche, una buona dose di razionalità e di sentimento.
Razionalità intesa come presa di coscienza che il pianeta non può “reggere” il peso dello sfruttamento a cui è oggi sottoposto. Uno sfruttamento che negli anni futuri sarà ancora più selvaggio.
Sentimento inteso come amore verso questo pianeta di cui siamo ospiti e non padroni. E verso cui, per la capacità di pensiero di cui disponiamo, dovremmo nutrire un grande senso di responsabilità.
C’è chi, per uscire dalla spirale consumistica, propone di imparare a vivere con solo cento cose.
A me pare una terapia molto drastica e discutibile perché non tiene conto di tutti gli oggetti che utilizziamo e che sono della collettività: scuole, ospedali, strade, mezzi di trasporto, mezzi di comunicazione, ecc..
Personalmente sono più affascinato dal movimento che propone la slow life come stile di vita. Credo che la lentezza possa essere una strategia vincente perché lascia tempo per pensare, per osservare, per comunicare, per riscoprire dimensioni umane che, nella corsa spasmodica a circondarsi di una quantità sempre maggiore di oggetti, si sono atrofizzate.
Renzo