sabato 8 dicembre 2012

CONVERSAZIONI SULL'EDUCAZIONE

Anche questo mese ho scelto di occuparmi di una pubblicazione del sociologo polacco Zygmunt Bauman. Il recente testo  “Conversazioni sull’educazione” è una  raccolta epistolare tra Bauman e Riccardo Mazzeo, un intellettuale suo amico, che spazia su vari temi e che mi è parso un logico completamento delle tesi esposte nel già commentato “Modernità liquida”.
A proposito di scuola e di educazione Bauman utilizza la metafora dei missili intelligenti contrapponendoli ai più datati missili balistici. I primi, a differenza dei secondi, apprendono durante il percorso e la principale capacità di cui hanno bisogno è quella di imparare e di farlo rapidamente. Un apprendimento veloce, tuttavia, nasconde un’altra capacità meno visibile e cioè quella di dimenticare altrettanto velocemente ciò che si era appreso un attimo prima. Quello che i cervelli dei missili intelligenti non devono mai dimenticare è che la conoscenza che essi acquisiscono è in sommo grado revocabile e ciò che garantisce il successo consiste nell’accorgersi del momento in cui la conoscenza immagazzinata ha cessato di essere utile e deve essere gettata via, dimenticata e sostituita. E’ con l’ingresso nei tempi liquido-moderni che coloro che erano alle prese con l’apprendimento e la promozione dell’apprendimento hanno dovuto spostare la loro attenzione dai missili balistici, vale a dire l’antica saggezza ed il suo valore pragmatico, ai missili intelligenti. Se la vita premoderna era una quotidiana rappresentazione dell’infinita durata di qualunque cosa, la vita liquido-moderna è una quotidiana rappresentazione della fugacità e della transitorietà. In un mondo del genere si è costretti a prendere la vita un pezzetto alla volta, aspettandosi che ogni pezzetto sia diverso dal precedente e richieda conoscenza ed abilità differenti. Ora, poiché l’invariabile obiettivo dell’educazione era, è e rimarrà in ogni epoca la preparazione dei giovani alla vita nelle realtà a cui sono destinati ad accedere, oggi una scuola di qualità, “pratica”, non può che essere una scuola che diffonde apertura mentale non chiusura, qualità non quantità.
Non è un caso allora che tutti i principali eroi contemporanei, uomini dalle storie radiose che raccontano il passaggio dalla miseria alla ricchezza come Steve Jobs, Jack Dorsey o David Karp, siano senza eccezione uomini falliti sotto il profilo dell’istruzione che hanno accumulato fortune miliardarie grazie ad una singola idea ben scelta e ad un’opportunità fortunata.
Sono le persone con idee brillanti ed utili (leggasi: vendibili) che oggigiorno abitano le stanze dei bottoni. Le principali risorse di cui è fatto il capitale sono nell’era post-industriale la conoscenza, l’inventiva, l’immaginazione, la capacità di pensare ed il coraggio di pensare in modo differente. Nell’elenco dell’uno per cento degli americani più ricchi (avete letto bene, uno per cento) solo uno di essi appartiene all’impresa industriale; il resto sono finanzieri, avvocati, architetti, programmatori, scienziati, medici, stilisti ed ogni sorta di celebrità dello spettacolo, della televisione e dello sport.
Tutto in linea con la società dei consumatori, contrassegnata da una cultura “nuovista” che promuove il culto della novità e della scelta casuale, ma caratterizzata anche da una massa di informazioni strabordante: “Invece di ordinare la conoscenza in file armoniose, la società dell’informazione offre cascate di segni decontestualizzati più o meno casualmente connessi gli uni agli altri. Detto diversamente: quando quantità crescente di informazione vengono distribuite a velocità crescente, diventa sempre più difficile creare narrazioni, ordini, sequenze di sviluppo. I frammenti minacciano di diventare egemoni. Ciò ha serie conseguenze per i modi in cui ci colleghiamo alla conoscenza, al lavoro ed allo stile di vita in senso lato”.
La verità è che questa è la prima generazione  del dopoguerra che ha di fronte la prospettiva di una mobilità verso il basso. Non c’e’ nulla che abbia potuto prepararli all’arrivo del nuovo mondo duro, freddo e inospitale in cui i voti hanno perso il loro valore, i meriti guadagnati si sono svalutati. Essi si sono ritrovati a vivere in un mondo di lavori volatili e disoccupazione ostinata, di fugacità di prospettive e durevolezza di sconfitte, di speranze frustrate e di opportunità che brillano per la loro assenza. Per la prima volta, a memoria d’uomo, l’intera classe dei laureati si trova di fronte un’alta probabilità di svolgere lavori ad hoc, temporanei, part-time, pseudolavori non pagati di apprendistato ingannevolmente definiti di formazione, tutti considerevolmente al di sotto delle abilità da loro acquisite e delle loro aspettative.
Chiosa Bauman:” In una società capitalista come la nostra, preparata ed armata prima di tutto per la difesa e la preservazione dei privilegi esistenti e solo secondariamente (in modo infinitamente meno rispettato e praticato) al miglioramento delle condizioni di chi vive in uno stato di deprivazione, questa schiera di laureati con grandi obiettivi e piccoli mezzi non ha nessuno a cui rivolgersi per ottenere assistenza e rimedio”. Tutto ciò, unitamente al progressivo ed esponenziale aumento delle tasse universitarie, rischia inevitabilmente di decimare le schiere dei giovani che crescono nei miseri territori della deprivazione sociale e culturale e che ciò nondimeno non sono ancora domi e osano bussare con determinazione alle porte universitarie dell’opportunità. Le università rischiano sostanzialmente di abdicare al loro ruolo attribuito/preteso di promotrici della mobilità sociale. E’ un ritorno in grande stile delle divisioni di classe.
In questo contesto vale la pena allora citare il cupo avvertimento/premonizione di W. Cohan sul New York Times: “Una lezione che ci viene dalla recente sollevazione in Medio Oriente, specialmente in Egitto, è che un gruppo di persone con un’alta istruzione ma disoccupate, in sofferenza da un periodo cospicuo di tempo, possono catalizzare un cambiamento sociale di enorme portata”.
Buone feste a tutti

                                                                 Felice Marino
                                                              aliama1@yahoo.it

sabato 3 novembre 2012

MODERNITA' LIQUIDA

“Modernità liquida” è una definizione coniata dal sociologo Zygmunt Bauman, uno dei più noti ed influenti pensatori al mondo, in un testo dal titolo analogo che ha avuto un enorme successo, un best-seller in Italia ed all’estero, un classico dei nostri tempi.
I liquidi, a differenza dei corpi solidi, non mantengono una forma propria, semmai si adattano prontamente a contenitori esterni. Inoltre la straordinaria mobilita’ dei fluidi li associa immediatamente all’idea di leggerezza. Sono questi i motivi per i quali la metafora della liquidità è decisamente pertinente allorchè intendiamo comprendere la natura dell’attuale e per molti aspetti nuova fase nella storia della modernità.
Modernità liquida è la convinzione che oggi l’unica costante sia il cambiamento e l’unica certezza sia l’incertezza. Se cent’anni fa essere moderni significava inseguire la perfezione definitiva, pare proprio che essere moderni oggi alluda ad un miglioramento all’infinito, privo però di qualunque aspirazione a diventare definitivo. La cosa interessante è che, ad un’attenta analisi, è lecito affermare che è stata proprio quella ricerca di perfezione assoluta, di solidità nelle cose, ad averne innescato la liquefazione. La liquidità è stata in definitiva un effetto di quella ricerca.
Dopo quasi due secoli, secondo Bauman, il rapporto di superiorità/inferiorità tra i valori della durevolezza e della transitorietà si è ormai ribaltato. Ormai si apprezza quasi soltanto ciò che è facile da mandare all’aria, scartare, abbandonare, i legami che si possono sciogliere senza fatica. Siamo tutti a caccia continua ed irrefrenabile di novità, siamo tutti passati drasticamente dal concetto di libertà “da” al concetto di libertà “di”. Ma libertà di fare cosa? La risposta è immediata: di consumare. La libertà promossa dal mercato globale è solo disegnata pensando al “consumatore ideale”, nient’altro.
Non crediamo più nel mito dell’esistenza fatta di frammenti che, come pezzi di una statua antica, si limitino ad attendere l’arrivo dell’ultimo pezzo,  di modo che possano tutti essere incollati e creare un’unità esattamente uguale a quella originaria. Non crediamo più in una totalità primordiale un tempo esistente, o in una totalità ultima che ci attende in qualche data futura. Ci limitiamo a consumare in maniera tumultuosa beni ed emozioni, in maniera totalmente acritica. Questo fa si che la libertà senza precedenti che la nostra società pare offrire ai suoi membri sia corredata anche paradossalmente da un’impotenza senza precedenti.
La libertà “di” va di pari passo con l’esaltazione dell’individualismo e gli individui, bersaglio delle pressioni dell’individualizzazione, vengono gradualmente, ma incessantemente, spogliati della corazza protettiva della cittadinanza ed espropriati delle loro capacità ed interessi di cittadini. In tali circostanze , la prospettiva di una trasformazione dell’individuo de iure in un individuo de facto (cioè padrone delle risorse indispensabili per una reale capacità di autodeterminazione) appare sempre più remota.  
Nel mondo della modernità liquida, sembriamo sempre più gli ospiti di un camping per roulotte. Ciò che tutti pretendono dai responsabili del camping è di essere lasciati in santa pace e non essere disturbati. In cambio essi promettono di non contestare l’autorità dei responsabili e pagare quanto dovuto. Nel caso in cui si sentano defraudati o ritengano che i responsabili siano venuti meno alle promesse fatte, i roulottisti possono reclamare il rimborso, ma non si sogneranno neanche lontanamente di mettere in discussione e rinegoziare la filosofia manageriale del posto, e meno che meno di assumersi la responsabilità di dirigerlo essi stessi.
Cent’anni fa, in piena modernità “solida” i pericoli e le minacce erano tutte attese dal lato del “pubblico”, sempre pronto ad invadere e colonizzare “il privato”. Scarsa attenzione veniva prestata ai pericoli derivanti dalla contrazione e dallo svuotamento dello spazio pubblico e dalla possibilità di un’invasione opposta: la colonizzazione della sfera pubblica da parte del privato. Tale eventualità sottovalutata e sottodiscussa si è oggi trasformata nel principale ostacolo all’emancipazione. Il potere pubblico implica l’incompletezza della libertà individuale, ma la sua ritirata o scomparsa profetizza l’impotenza pratica della libertà legalmente vittoriosa. La storia dell’emancipazione moderna ha virato da un confronto con il primo pericolo a una lotta contro il secondo.
Secondo Bauman “qualsiasi reale liberazione richiede oggi più, non meno, sfera pubblica e potere pubblico”. Allorchè la politica pubblica abdica alle proprie funzioni e viene sostituita dalla politica della vita, i problemi incontrati dagli individui de iure nel loro strenuo tentativo di diventare individui de facto si rivelano minacciosamente non sommabili e non cumulativi, spogliando così la sfera pubblica di qualsiasi sostanza e riducendola a mero luogo di pubblica confessione ed esposizione di preoccupazioni private. Allo stesso modo, non solo l’individualizzazione appare una strada a senso unico, ma sembra distruggere nel suo cammino tutti gli strumenti che potrebbero essere usati per realizzare i suoi obiettivi.
Il filosofo polacco è convinto, in ogni caso, che quello che stiamo vivendo è un periodo di “interregno”, uno di quei momenti in cui i vecchi modi di agire non funzionano più, ma ancora non sono state inventate nuove modalità più adeguate alle nuove condizioni. Motivo per cui la ricerca di una vita in comune alternativa non può che partire dall’analisi delle alternative all’attuale  politica della vita.

                                                                            Felice Marino
                                                                          aliama1@yahoo.it

sabato 13 ottobre 2012

LA MANOMISSIONE DELLE PAROLE

In un recente articolo dal titolo “Catilina”, rivisitando le vicissitudini storiche di quest’ultimo, ho posto l’accento sul ruolo della storiografia ufficiale e sul rischio che le verità storiche  possano essere mistificate dai “vincitori”, talvolta totalmente ribaltate. Questo mese invece, ispirato dalla lettura di “La manomissione delle parole” di Gianrico Carofiglio, voglio soffermarmi sul potere del linguaggio, dell’eloquenza, e sulla possibilità che il linguaggio stesso possa essere volutamente manomesso nelle sue componenti prime, ossia le parole.
Mi spiego meglio. In nessun altro sistema di governo le parole sono importanti come in democrazia. La democrazia è discussione, è ragionamento, si fonda sulla circolazione delle opinioni e delle convinzioni, e lo strumento privilegiato di questa circolazione sono le parole.
La povertà della comunicazione sovente si traduce in povertà dell’intelligenza, talora in doloroso soffocamento delle emozioni. Non è un caso che i ragazzi più violenti possiedano spesso strumenti linguistici scarsi ed inefficaci, sul piano del lessico, della grammatica e della sintassi. Non sono capaci di gestire una conversazione, non riescono a modulare lo stile della comunicazione in base agli interlocutori ed al contesto, non fanno uso dell’ironia e della metafora. Non sanno sentire, non sanno nominare le proprie emozioni, non sanno raccontare storie. I ragazzi sprovvisti delle parole per dire i loro sentimenti di tristezza, di rabbia, di frustrazione hanno un solo modo per liberarsi e liberare sofferenze a volte insopportabili: la violenza fisica.
C’è dunque uno stretto rapporto tra ricchezza delle parole e ricchezza di possibilità. L’abbondanza, la ricchezza delle parole è una condizione del dominio e del controllo sulla realtà e diventa, inevitabilmente, strumento del potere, segnatamente di quello politico. Ecco perché è necessario che la conoscenza, il possesso delle parole siano esenti da discriminazioni e garantiti da una scuola uguale per tutti. Ma la qualità della vita pubblica di un paese si può desumere non solo dal numero delle parole ma anche dalla loro qualità.
La tesi di Carofiglio e di molti altri è che l’impoverimento nel numero delle parole e la menomazione della loro capacità di indicare cose e idee stia indebolendo la democrazia ed aprendo sempre più la strada alle destre. Egli sostiene che la tendenza non sia affatto casuale e che spesso risponda ad un preciso intento di gruppi di potere. Nel famosissimo romanzo 1984 di G. Orwell il regime di Oceania non solo altera la verità della storia, ma anche il linguaggio con cui l’individuo esprime il suo pensiero. La Neolingua era intesa non a ad estendere ma a diminuire le possibilità del pensiero: si veniva incontro a questo fine riducendo al minimo la scelta delle parole. L’abbondanza di parole e la molteplicità di significati sono strumenti del pensiero, ne accrescono la potenza e la capacità critica: parallelamente la ricchezza del pensiero esige una ricchezza di linguaggio. Il progressivo contrarsi del linguaggio, in Oceania ed in altri luoghi meno immaginari, ha per effetto prima l’impoverimento, poi una vera e propria inibizione del pensiero.
La riduzione del numero di parole e la storpiatura del loro significato vanno spesso di pari passo. La scelta delle parole è un atto cruciale e fondativo: esse sono dotate di una forza che ne determina l’efficacia e che può produrre conseguenze. Espressioni come giudeo, terrone, negro, marocchino attivano immediatamente l’ostilità, creano “un altro” estraneo da respingere. E’ un’interferenza sulla realtà che ogni giorno sperimentiamo, una manipolazione che passa attraverso la scelta delle parole e che in molti casi si fa violenza, palese o più spesso e più pericolosamente occulta. Il filologo tedesco Klemperer non smise mai durante gli anni della persecuzione nazista di annotare, registrare, censire la progressiva torsione, l’abuso, la violenza esercitata sulla lingua tedesca dal regime. La lingua nazista in molti casi si rifà  ad una lingua straniera, per il resto quasi sempre al tedesco prehitleriano: però muta il valore delle parole e la loro frequenza, trasforma in patrimonio comune ciò che prima apparteneva ad un singolo o ad un gruppuscolo, asservisce la lingua al suo spaventoso sistema. Le parole come minime dosi di arsenico, dall’effetto lentamente, inesorabilmente tossico: questo è il pericolo delle lingue del potere e dell’oppressione, e soprattutto del nostro uso e riuso inconsapevole e passivo.
Se guardiamo al nostro paese in questi ultimi vent’anni parole come libertà, secessione, spread o espressioni come toghe rosse, Roma ladrona, governo tecnico hanno rappresentato senza dubbio esempi di linguaggio del potere. I potenti di turno hanno forzato la lingua ma, cosa ancora più grave, hanno spesso privato tante parole, abusandone, del loro significato per cui ad esempio profondere i beni altrui diventa liberalità, la spregiudicatezza nelle male azioni diventa sinonimo di forza d’animo, una dichiarazione di prescrizione diventa una sentenza di assoluzione. Nello specifico poi  Carofiglio, nella seconda parte del libro, individua cinque parole da riabilitare con urgenza, esse sono: vergogna, giustizia, ribellione, bellezza e scelta.
Il pericolo più imminente, in sostanza, è che a furia di utilizzare le parole a proprio uso e consumo tirandole per la giacchetta, queste finiranno per non significare più nulla e questo impoverimento linguistico finirà in definitiva per limitare la nostra capacità di pensare, esattamente il contrario di ciò che richiederebbe una democrazia sana. In ogni caso però come affermò il già citato Klemperer :“ le asserzioni di una persona possono essere menzognere, ma nello stile del suo linguaggio la sua natura si rivela apertamente “.

                                                               Felice Marino
                                                             aliama1@yahoo.it

domenica 16 settembre 2012

DEBITO

E se la storia delle vicende umane fosse alla fin fine la storia del Debito? La tesi suggestiva e molto ben documentata è contenuta in un bellissimo saggio dal titolo “Debito. I primi 5000 anni” di David Graeber, antropologo ed attivista del movimento no global di Seattle, docente prima a Yale, da dove è stato allontanato per motivi politici, e poi alla Goldsmiths di Londra.
La tesi è che l’istituzione del debito sia anteriore alla moneta, e non viceversa, e che da sempre esso sia oggetto di aspri conflitti sociali. Da allora la nozione di debito si è estesa alla religione come cifra delle relazioni morali e domina i rapporti umani, definendo libertà e asservimento. Da migliaia di anni la lotta tra ricchi e poveri prende la forma del conflitto tra debitore e creditore, già nel mondo antico tutti i movimenti rivoluzionari avevano un unico programma: “Cancellare il debito e ridistribuire la terra”.
D’altra parte se si guarda alla storia del debito, quel che si scopre è una profonda confusione morale. Quasi ovunque la maggior parte delle persone sostiene allo stesso tempo che restituire il denaro che si è preso a prestito è una questione di semplice moralità ma anche che chiunque abbia l’abitudine di prestare denaro è empio. Fatto sta che già nell’antica Mesopotamia, da dove sono arrivate le più antiche testimonianze di una sorta di moneta creditizia, i sovrani dovevano periodicamente rimediare con dei giubilei, che azzeravano ogni debito, alla riduzione in schiavitù  di ampie fasce della popolazione, pena la deflagrazione di tutta la società.
Ma partiamo dall’inizio del ragionamento. Mercati e moneta non sono sorti automaticamente dal baratto come sostengono i manuali di Economia. Fino ad oggi nessuno è riuscito a individuare un posto nel mondo (Graeber lo dice da antropologo e quindi con cognizione di causa) in cui le transazioni economiche tra vicini seguano con regolarità il modello economico “ti do venti polli per quella vacca”. Questo non significa che il baratto non esista ma che, al contrario di quello che pensava Adam Smith, non era utilizzato tra abitanti dello stesso villaggio, semmai tra stranieri o addirittura tra nemici. A dire il vero ci sono buone ragioni per ritenere che il baratto non sia affatto un fenomeno particolarmente antico, ma che si sia diffuso di recente. Per come lo conosciamo noi, si realizza tra persone che, pur avendo familiarità con l’uso del denaro, per una qualche ragione non ne hanno più granchè a disposizione. Sistemi di baratto molto complicati sono spesso sorti inaspettatamente in seguito al collasso di economie nazionali, come recentemente nella Russia degli anni Novanta o in Argentina attorno al 2002, quando il rublo ed il peso-dollaro scomparvero. In sostanza noi non abbiamo cominciato col baratto, per poi scoprire la moneta ed alla fine sviluppare un sistema di credito. E’ successo proprio l’opposto. Il cosiddetto denaro virtuale è venuto prima. Le monete sono arrivate molto dopo e il loro uso si è diffuso in maniera disomogenea, senza mai sostituire il sistema di credito.
D. Graeber si ispira alle teorie elaborate ad inizio Novecento dall’economista  Mitchell-Innes. Nessun economista ha mai confutato le sue tesi, semplicemente lo hanno ignorato. Ebbene secondo Graeber ed i sostenitori della teoria creditizia della moneta, quest’ultima sarebbe semplicemente uno strumento di calcolo. Ma di cosa? La risposta è semplice: del debito. Una moneta è in effetti un impegno a pagare una certa cifra, cioè la forma più elementare di “pagherò”.
Facciamo un esempio: immaginiamo che in un villaggio un ipotetico Giovanni, disponendo di decine di paia di scarpe, decida di darne un paio ad Enrico che se ne trova senza. Enrico non ha niente con cui contraccambiare che possa interessare a Giovanni e decide, piuttosto che ricambiare con un favore,  di promettere qualcosa di equivalente. Enrico dà a Giovanni un “pagherò”. Giovanni può aspettare che Enrico abbia qualcosa di utile per lui. Quando ciò avverrà Enrico potrà riscattare il foglio con su scritto “pagherò” e farlo a pezzetti. Ma supponiamo che Giovanni giri il suo “pagherò” ad una terza persona a cui deve qualcosa e quest’ultima a sua volta ad una quarta. Adesso Enrico dovrà quel denaro a lei. La moneta nasce così, perché non c’è fine logica a questa circolazione di debiti. In linea di  principio non c’è ragione che il “pagherò” non continui a circolare per il villaggio per anni, a patto che la gente abbia sempre fiducia in Enrico. Di fatto, se le cose vanno per le lunghe, la gente può anche dimenticarsi di chi ha emesso il “pagherò”. In questo senso non c’è nessuna differenza tra una conchiglia (non è un esempio bislacco, pare che in Cina per un lungo periodo sia stato proprio così), un dollaro d’argento, una moneta da un dollaro realizzata in una lega rame-nichel, ideata per assomigliare all’oro, un pezzo di carta verde con l’immagine stampata di G. Washington o un impulso digitale sul computer di qualche banca. Val bene sottolineare che il “pagherò” di Enrico può funzionare come denaro solo se Enrico non pagherà mai il proprio debito.
In effetti le banconote odierne funzionano secondo uno schema analogo. E’ con questo principio che fu fondata la Bank of England (la prima banca centrale moderna). Nel 1694 un consorzio di banchieri inglesi fece un prestito di 1,2 milioni di sterline d’oro al re. In cambio, i banchieri ottennero il monopolio reale sull’emissione di banconote. In pratica questo significava che avevano il diritto di concedere in prestito “pagherò” per una porzione del denaro che il re doveva loro ad ogni abitante  del regno che ne volesse chiedere in prestito, con il risultato di monetizzare e far circolare il debito reale appena creato. La fiducia in questo caso andava accordata direttamente al re. Si trattava di un bell’affare per i banchieri (facevano pagare l’8% di interesse annuo sul prestito originario alla corona ed al tempo stesso chiedevano gli interessi su quello stesso denaro ai loro clienti che lo prendevano in prestito), ma poteva funzionare solo fino a quando il debito originario rimaneva insoluto. Quel debito infatti non è stato ancora saldato. Non può essere saldato. Se venisse saldato, l’intero sistema monetario della Gran Bretagna cesserebbe di esistere.
In questa logica i mercati sorgono come effetti collaterali. Il volano di fondo è la tassazione statale che obbliga ciascuno a trovare un qualche modo per mettere le mani sulle monete. Secondo alcuni questo stato di cose stimolerebbe l’operosità e sarebbe alla base del progresso, ma molte sono le distorsioni passate e presenti. Vediamo qualche esempio emblematico. Nel 1895 la Francia ha invaso il Madagascar, sciolto il governo in carica e dichiarato il paese colonia francese. Tra le prime cose che il generale Gallieni fece dopo “la pacificazione” ci fu l’imposizione di pesanti tasse sulla popolazione malgascia, la quale doveva rimborsare i costi necessari all’invasione. Inoltre, dal momento che le colonie francesi erano obbligate all’autonomia finanziaria dalla madrepatria, le tasse servivano a realizzare tutti i progetti del regime francese. Ai contribuenti malgasci nessuno ha mai chiesto se volessero strade, ponti, ferrovie e soprattutto piantagioni. Furono trucidati centinaia di migliaia di malgasci e nonostante il fatto che il Madagascar non avesse mai recato alcun danno comparabile alla Francia, la popolazione di quel paese si sentì dire fin dall’inizio che doveva dei soldi al paese occupante. Ancora ai nostri giorni il popolo malgascio deve soldi alla Francia ed il resto del mondo riconosce la giustizia di questo principio.
E’ solo uno dei tanti esempi possibili, ma al lettore non sfugge il senso di tutto ciò. Il debito, spesso e volentieri costruito ad arte, è la chiave per assoggettare interi popoli, per depredare interi paesi.
Uno potrebbe benissimo chiedersi: se i nostri ideali politici e giuridici sono fondati sulla logica dello schiavismo, allora perché siamo riusciti ad abolire la schiavitù? Ovviamente un cinico potrebbe sostenere che non l’abbiamo abolita affatto ma che ci siamo solo limitati a rinominarla. Non avrebbe torto. Da questo punto di vista l’elemento cruciale è la capacità del denaro di trasformare la moralità in una faccenda di aritmetica impersonale e, così facendo, di giustificare cose che altrimenti potrebbero sembrare oscene o indecenti. Il denaro ha sempre la potenzialità di diventare un imperativo autonomo. Se gli si permette di espandersi, può diventare rapidamente una morale così imperativa da far sembrare tutte le altre frivole al suo confronto. Anche le relazioni umane possono diventare l’argomento di un calcolo di costi e benefici.
Tuttavia la realtà dei giorni nostri potrebbe essere ancora meglio compresa da un proverbio americano che recita così : “Se devi alla banca centomila dollari, la banca ti possiede. Se devi alla banca cento milioni di dollari, possiedi la banca”.
Il 15 Agosto 1971 il presidente degli Stati Uniti Richard Nixon annunciò la fine della convertibilità in oro dei dollari americani detenuti all’estero. L’effetto immediato della sospensione della convertibilità aurea fu di far schizzare alle stelle il prezzo dell’oro, simmetricamente il valore del dollaro in termini di oro calò drasticamente. Il risultato fu un enorme trasferimento di ricchezza dai paesi poveri, che non avevano riserve auree ma che tenevano le proprie riserve in dollari, ai paesi ricchi, come Stati Uniti e Gran Bretagna, che mantenevano riserve in oro. Il mondo entrò di fatto in una nuova fase della storia finanziaria, fase che ancora nessuno capisce completamente. Mentre la Banca d’Inghilterra prestava oro al sovrano, la Federal Reserve (la banca centrale americana) crea i dollari semplicemente con un tratto di penna. Ebbene a causa del pesante deficit di bilancia commerciale degli Stati Uniti, un numero enorme di dollari circola all’estero.
Le banche centrali estere possono farci ben poco con questi dollari, tranne comprare titoli del tesoro americano. Fin dai tempi di Nixon i compratori più importanti del debito americano sono state le banche di quei paesi che si sono trovati sotto l’occupazione americana.  Nel tempo l’effetto combinato dell’inflazione e dei bassi tassi d’interesse pagati da questi titoli è stato che essi  si sono deprezzati, aumentando “il tributo”. Inoltre lo status internazionale del dollaro è sostenuto, fin dal 1971, dal fatto che il petrolio sia comprato e venduto solo in questa valuta. Ogni tentativo dei paesi Opec di usare anche altre divise si è infranto contro la resistenza di Arabia Saudita e Kuwait, due protettorati americani. Saddam Hussein prese la decisione unilaterale di passare dal dollaro all’euro nel 2000, seguito dall’Iran nel 2001. Sappiamo come è andata a finire.
Le politiche del Fondo Monetario Internazionale, che insiste nel chiedere che i debiti siano ripagati quasi esclusivamente attingendo dalle tasche dei poveri, si sono scontrate negli ultimi anni prima contro un movimento di ribellione sociale, parimenti globale (no global), poi con un’aperta ribellione fiscale tanto in Africa quanto in America latina. Sostanzialmente “il sacro principio” per cui tutti dobbiamo pagare i nostri debiti si scontra con i fatti, ed i fatti mostrano che non tutti devono pagare i propri debiti. Solo alcuni sono obbligati. La recente crisi economica sta alimentando anche in Europa un acceso dibattito sulla natura del debito degli stati membri e sulla sua gestione, che rischia di trasformare il continente in una polveriera.
Niente sarebbe più utile ed importante di fare tabula rasa per tutti, rompendo con la nostra morale abituale, e ricominciare da capo. La gigantesca macchina del debito che, negli ultimi cinque secoli, ha ridotto porzioni sempre più grandi della popolazione mondiale all’equivalente morale dei conquistadores sembrerebbe infatti essere arrivata al suo limite sociale ed ecologico. Il problema è come ridimensionare la cosa, andando progressivamente verso una società in cui le persone possano vivere di più e lavorare di meno. Si, proprio così, lavorare di meno.
D. Graeber conclude così :“ Vorrei finire spezzando una lancia a favore dei poveri non industriosi. Almeno non fanno male a nessuno. Nella misura in cui il tempo che sottraggono al lavoro è usato per stare con la famiglia e gli amici, per prendersi cura delle persone amate, probabilmente stanno migliorando il mondo più di quanto non possiamo rendercene conto. Forse dovremmo immaginarli come i pionieri di un nuovo ordine economico che non condivide la tendenza all’autodistruzione del nostro”.

                                                                Felice Marino
                                                             aliama1@yahoo.it

lunedì 20 agosto 2012

CATILINA

Lucio Sergio Catilina nacque a Roma nel 108 a.C. Era un aristocratico, apparteneva infatti alla gens Sergia , una delle cento familiae che, secondo la leggenda, avevano fondato Roma. Nel 63 a.C. fu capo di una congiura che falli’ e gli costò la vita.
Così lo ritrae il celebre storico romano Sallustio: “Lucio Catilina, nato da famiglia illustre, era fortissimo di animo e di corpo, ma di indole trista e malvagia. Fin dall’adolescenza trovò piacere nelle stragi, nelle rapine, nelle discordie civili e fra esse passò i suoi anni giovanili. Corpo resistente alla fame, al freddo, alla veglia fino all’inverosimile; animo audace, subdolo, incostante, simulatore e dissimulatore in qualsiasi materia, cupido dell’altrui, scialacquatore del suo, sfrenato nelle passioni, buona parlantina, nessuna saggezza, la mente vasta correva sempre verso lo smisurato, l’incredibile, l’irraggiungibile”.
Questa invece la lettera che lo stesso Catilina scrive a Quinto Lutazio Catulo prima dell’ultima disperata battaglia alla quale non sopravvisse: “Lucio Catilina a Quinto Catulo. Dà fiducia a questa mia lettera di raccomandazione il tuo grande attaccamento a me, conosciuto per esperienza, tanto utile nelle mie grandi peripezie. Non è quindi mia intenzione fare la difesa del mio nuovo progetto, bensì volli sottoporre a te la giustificazione che a me viene dalla consapevolezza di non essere in colpa e che tu, per tutti gli Dei, dovrai riconoscere sincera. Inasprito da ingiustizie e da oltraggi, alla constatazione che, defraudato dei frutti delle mie fatiche e della mia abilità, non posso conseguire il grado conveniente alla mia dignità, mi sono assunto, com’è mio costume, la causa generale dei disgraziati. Non già che io non possa far fronte ai miei impegni personali con i miei averi, ma perché vedo uomini indegni nobilitati dalle  pubbliche cariche e me escluso da esse per ingiusti sospetti. Per questi motivi tengo dietro alla speranza, ben onorevole nel mio caso, di conservare quel tanto di dignità che mi è stato lasciato. Vorrei scriverti più a lungo, ma mi giunge notizia che si sta per ricorrere contro di me alla violenza. E ora ti raccomando Orestilla e la affido alla tua leale amicizia. Proteggila da ogni vessazione, te ne prego per i tuoi figlioli. Sta bene.” Quella descritta da Sallustio e quella che scrive a Catulo sono la stessa persona? Parrebbe proprio di si, ma i ritratti sembrano piuttosto divergenti. Evidentemente qualcosa non quadra.
Di Catilina si occupa in un omonimo saggio il giornalista Massimo Fini attraverso una rivisitazione critica delle sue vicende, sullo sfondo di una Roma repubblicana dove a livello politico demagogia, sotterfugi, doppi giochi, tradimenti, ingiustizie, illeciti erano la regola. Ma che strano…
In realtà Sallustio ed il più famoso Cicerone, che di Catilina si occupa nelle sue famose tre Catilinariae, avevano i loro buoni motivi per consegnare ai posteri un’immagine turpe del capo della congiura. Intanto dei motivi personali. Infatti Catilina (una sorta di bel tenebroso), che aveva sedotto più di una nobile vergine sfidando le ire delle loro potenti familiae e la morale della buona società romana, pare avesse violato una Vestale (una sacerdotessa) di nome Fabia. Il punto è che Fabia era sorella di Terenzia, prima moglie di Cicerone, poi sposa in terze nozze di Sallustio.
Ma c’erano soprattutto motivi politici per consegnare alla storia, e senza appello, Catilina come il più violento dei criminali. La congiura di Catilina, a ben guardare, assume infatti i tratti della prima rivoluzione della Storia ed in quanto tale di essa non doveva restare traccia alcuna. Inevitabile una riflessione sul ruolo svolto  dalla storiografia ufficiale. Già nell’antica Roma era diffuso il vezzo di mistificare verità e vicende ad uso e consumo dei potenti di turno. Ma che strano…
Ma torniamo a Catilina ed alle sue vicende. Più volte egli provò legalmente la via del consolato (nell’antica Roma repubblicana c’erano due consoli che venivano rinnovati ogni anno), ma fu sempre respinto con ogni genere di trucchi e brogli. Sulla sua strada trovò l’ostilità feroce dell’oligarchia romana ed a farsene interprete fu proprio Cicerone, console in carica in occasione della congiura, un uomo totalmente diverso da Catilina.
Marco Tullio Cicerone, per difesa della legalità, intendeva il mantenimento dello statu quo, salvo cambiare idea quando la legge era d’intralcio a qualche manovra di potere o affaruccio poco pulito. Questo strenuo arrocco a difesa dei propri interessi era mascherato, come sempre, con nobili parole sulla humanitas, la dignitas, l’amor di Patria, delle tradizioni, degli Dei. Cicerone fu proprio il campione dei campioni del belpensantismo ipocrita del tempo. Fu sicuramente un grandissimo avvocato, forse con Demostene il migliore dell’antichità. Ma quelle che furono le sue doti di avvocato furono anche il suo deficit di uomo: mancanza di convinzioni, cinismo, opportunismo, ambiguità.
Ma perché Catilina era così insidioso per l’aristocrazia romana? Con la sconfitta di Cartagine Roma divenne padrona del Mediterraneo. Immense ricchezze affluirono nelle mani degli aristocratici insieme a decine di migliaia di schiavi. Gli aristocratici,  per quanto si sfogassero in lussi mai visti prima, avevano il “problema” di impiegare l’enorme surplus di denaro venutosi a creare. Erano proprietari terrieri ed investirono nella terra. Poiché i piccoli proprietari terrieri erano tenuti al servizio militare, questo comportava lunghe assenze e conseguente indebitamento. Furono quindi facili prede dei latifondisti. In sostanza tanto più grande diventava il latifondo tanto più fragile si faceva la piccola ed anche la media proprietà. Possedendo terre a volontà i grandi proprietari, diversamente dai piccoli, non si curavano di farle rendere al massimo. Inoltre le terre erano lavorate da schiavi che, come ovvio, profondevano un impegno relativo.
Il risultato fu il ricorso, sempre più frequente, ad importazioni di grano  prima dalla Sicilia e dalla Sardegna, poi dall’Africa e dall’Egitto. L’uso su vasta scala della manodopera servile finì per togliere il lavoro anche ai fittavoli ed ai braccianti che spesso erano proprio ex proprietari ridotti a salariati. La conseguenza fu l’inurbamento e in tantissimi si spostarono a Roma. Anche in città però era difficile trovare lavoro, fatto salvo i lavori stagionali. Ecco allora che a Roma si radicò una plebe malcontenta, la cui vocazione parassitaria si accentuò allorchè furono introdotte distribuzioni gratuite o semi-gratuite di grano. Nello stesso tempo l’acquisizione di nuove province incrementò molto il commercio. Spuntarono banchieri, finanzieri ed affaristi di ogni genere. I non aristocratici che svolgevano queste attività erano chiamati cavalieri e furono proprio i cavalieri a introdurre e sviluppare il prestito ad usura. Questo poteva raggiungere un interesse anche del 50% e strangolava un po’ tutti, talvolta gli stessi aristocratici impegnati a finanziare le proprie carriere politiche. Il denaro in definitiva cominciò a prendere il sopravvento su tutto e tutti. Si instaurò il classico regime, tipico delle società in decadenza e in decomposizione, della doppia morale: una pubblica, buona per la gente comune e per i gonzi che ci volevano credere, l’altra privata che si faceva beffe della prima.
In questo contesto, dopo la brutale fine riservata ai Gracchi, nel suo ennesimo tentativo di raggiungere il consolato Catilina propose qualcosa di veramente rivoluzionario. Per prima cosa una riforma agraria che, ribadendo l’intangibilità del diritto di proprietà, prevedeva una vastissima redistribuzione di terre ai nullatenenti, facendo perno sulle terre del demanio in Italia e soprattutto all’estero nelle nuove provincie. Il programma economico catilinario colpiva duramente anche i cavalieri attraverso la cancellazione parziale dei debiti e l’abrogazione delle leggi che disponevano l’arresto e la carcerazione dell’insolvente, nonché attraverso l’abbassamento degli interessi debitori fissando un limite legale del 12%. In sostanza Catilina era per un riequilibrio tra l’oligarchia aristocratica, che deteneva di fatto tutto il potere istituzionale, e la plebe, e per un ridimensionamento drastico dell’influenza dei cavalieri che, con la potenza del denaro contante, tiranneggiavano entrambe. Il fatto poi che nel movimento catilinario ci fossero moltissime donne e numerosi schiavi fa ritenere che si volesse dare dignità politica alle prime e almeno giuridica ai secondi. Le prime infatti non votavano e non potevano essere elette alle cariche pubbliche, i secondi erano considerati dal punto di vista giuridico delle cose.
Alla fine, vittima per l’ennesima volta di brogli e trucchetti, il guerriero Catilina, ormai esausto, optò per la congiura e prese le armi. Catilina non era Spartaco, che con i suoi gladiatori aveva insanguinato la penisola pochi anni prima, non combatteva contro Roma ma per Roma, la Roma delle origini che si portava nella testa. Tradito da alcuni congiurati, fu progressivamente isolato e  disinnescato. Contrastato in maniera durissima si trovò ad affrontare lo scontro con forze impari e lo affrontò. Morì, pagando con la vita la fedeltà a se stesso.
Lo stesso Sallustio, nel descrivere la fine di Catilina, ammette che “Catilina venne trovato lungi dai suoi fra i cadaveri dei nemici; respirava ancora un poco ma gli si leggeva sul volto la stessa espressione di indomita fierezza che aveva da vivo”.

                                                            Felice Marino
                                                         aliama1@yahoo.it

sabato 9 giugno 2012

AUSMERZEN

Nel 1920, in Germania, uno psichiatra tedesco di nome Alfred Hoche ed un suo connazionale giurista di nome  Karl Binding pubblicarono un libretto dal titolo “Il permesso di annientare vite indegne di essere vissute”. Il libretto diventò un caso letterario, non passò inosservato. Fu qui che venne definito per la prima volta il concetto di Ausmerzen ossia soppressione dei deboli, dei parassiti del popolo, dei nemici dello stato, dei mangiatori inutili, delle vite senza valore, delle esistenze-zavorra.
Ausmerzen è il titolo di un bellissimo saggio di Marco Paolini che racconta una storia sconosciuta ai più, quasi mai menzionata nei libri di storia, oggetto di un secondo processo di Norimberga svoltosi nell’autunno del 1946, molto meno famoso del primo e che riguardò prevalentemente personale medico e paramedico. E’ la storia di uno sterminio di massa noto come Aktion T4 dove T4 sta per TiergartenstraBe numero 4, un indirizzo di Berlino. Durante Aktion T4 furono uccisi e passati per il camino circa trecentomila esseri umani, di nazionalità tedesca, classificati come vite indegne di essere vissute. Cominciarono a morire prima dei campi di concentramento, prima degli zingari, prima degli ebrei, prima degli omosessuali e degli antinazisti e continuarono a morire anche dopo la liberazione.
Complessivamente tra il 1934 ed il 1939 in Germania furono sterilizzate circa quattrocentomila persone. Non accadde solo in Germania, ma qui la propaganda si preoccupò di farlo sapere. A partire dal 1939 il programma della politica demografica e razziale fu quindi pronto per un salto di qualità che nessuno degli altri paesi “progrediti” e convertiti all’Eugenetica aveva mai osato pensare: eliminare chi rallenta la marcia, sopprimere vite indegne di essere vissute, applicare l’eutanasia di stato. Si continuerà fino al 1941 in maniera ufficiale, poi sotto traccia fino al 1945, persino alcuni mesi oltre la liberazione. Posti come Grafeneck, Brandeburg, Hartheim, Sonnenstein, Bernburg o Hadamar ai più non dicono niente, non hanno la stessa sinistra fama di Auschwitz, Mauthausen, Dachau, Treblinka o Buchenwald. Eppure a Grafeneck furono trattate 9839 vite, 9772 a Brandeburg, 18269 ad Hartheim, 13720 a Sonnenstein, 8601 a Bernburg, 10072 ad Hadamar. Vite trattate male. Nessuna morte pietosa, molta paura, molto inganno.
Facciamo però un passo indietro. Il padre dell’Eugenetica fu Francis Galton, cugino di Charles Darwin. Galton raffrontò i tipi naturali, provò a misurare le capacità mentali ereditarie, a classificare gli umani per categorie. E’ evidente in tutto questo l’enorme influenza degli studi del cugino sull’evoluzione nel regno animale. Il passaggio successivo fu l’idea, l’Eugenetica appunto, a cui si ispirarono in tanti, di selezionare progressivamente la razza, impedendo ad esempio che criminali ed inferiori  si riproducessero. L’Eugenetica ha perso credibilità per gli stermini commessi dai nazisti, ma per decenni e nello stesso periodo, con meno clamore, le democrazie del tempo autorizzarono e permisero che decine di migliaia di persone in nome di quella logica venissero sterilizzate, ostracizzate, discriminate. Fu nei manicomi che si concentrarono la maggior parte delle sterilizzazioni, così come l’impiego della barbara lobotomia e dell’elettroschock.
I manicomi nacquero in Francia durante la Belle Epoque e si diffusero rapidamente in Germania, Inghilterra, nel nuovo mondo ed anche da noi. Vi finirono dentro quelli capaci di atti inspiegabili, quelli pericolosi, ma poi anche i deboli di mente che non avevano un posto dove stare. In Italia bastava un qualsiasi male incurabile, come la pellagra, per entrarci, ovunque bastava essere alcolisti, vagabondi, avere un carattere senza i soldi per mantenerlo. Spesso dagli orfanotrofi si finiva direttamente nei manicomi.
Le conoscenze dei meccanismi ereditari peraltro erano piuttosto scarse. Nonostante il lavoro di Mendel fosse contemporaneo a quello di Galton, quest’ultimo fu a lungo ignorato. Mendel aveva dimostrato infatti che la combinazione dei geni è casuale e la trasmissione dei caratteri non lineare, aveva dimostrato altresì la decrescita dei caratteri recessivi con l’aumento degli incroci. Il nazismo non inventò l’Eugenetica, ne raccolse l’idea e ne fece un imperativo politico, all’inizio furono in tanti a guardare da altri paesi con interesse a quanto accadeva in Germania.
L’inizio della guerra fu forse uno dei motivi dell’escalation delle pratiche eugenetiche in Germania. Si iniziò con i bambini, poi si passò agli adulti. Furono individuati i luoghi, quasi tutti isolati ma non lontani da strade e ferrovie. Si trattò prevalentemente di strutture donate alla chiesa o ad istituzioni benefiche per farne ospizi e ricoveri per malati di mente. In ognuno di questi entrarono in funzione una camera a gas ed un forno crematorio. Si trattò di veri e propri centri di uccisione. Furono organizzati come veri e propri macelli, soltanto la necessità di intrattenere rapporti con le famiglie, di giustificare i decessi, li distingueva da una macelleria.
Se reclutare coloro che già si trovavano in ospedali psichiatrici era piuttosto facile, più difficile era farsi affidare dei bambini dalle famiglie. Qui svolsero un ruolo cruciale i medici di famiglia. Essi furono purtroppo un cavallo di Troia formidabile per lo sterminio dei bambini della nazione. Il medico di famiglia doveva segnalare la possibilità di un ricovero in un centro specializzato, difficilmente al contrario una famiglia avrebbe affidato un figlio disabile ad un uomo in divisa. I genitori dovevano essere informati dei rischi, ma i rischi dovevano essere minimizzati. Alla fine dovevano firmare per il consenso. Per chi resisteva c’erano pressioni fino alla minaccia di togliere la patria potestà alla famiglia con conseguenza su tutti i figli della coppia. All’inizio i bambini venivano ricoverati in un reparto d’ospedale pediatrico dove i genitori potevano ancora visitarli, poi improvvisamente scattava il trasferimento in uno dei ventuno “reparti per l’assistenza esperta dei bambini con malattie ereditarie” e da quel momento diventava difficile avere notizie, impossibile avere un indirizzo per una visita. Cinquemila furono i bambini più o meno censiti in Aktion T4 come sterminati. Nessuno fu ucciso senza il consenso dei genitori.
Una volta eliminati i Nutzlose Esser, mangiatori inutili, entravano in azione le segretarie di conforto che comunicavano alle famiglie il decesso improvviso dei loro familiari per cause naturali. Le lettere, migliaia di lettere, non dovevano assomigliarsi per non destare sospetti. Poiché a termini di regolamento non si potevano reclamare gli effetti personali oltre i quattordici giorni dalla data del decesso, le lettere venivano mandate apposta in ritardo così che nessuno riusciva a reclamare nulla. Ma cosa c’era da reclamare? In realtà la cosa più preziosa queste persone non la portavano nei vestiti né nei denti d’oro; la cosa più preziosa erano i loro cervelli o altre parti del loro corpo donate alla scienza. Molto di ciò che sappiamo sul caldo e sul freddo dipende dagli esperimenti fatti nei campi di concentramento, con cavie fatte morire per saperne di più sui limiti di resistenza in condizioni estreme.
Aktion T4 terminò nell’autunno del 1941, almeno nella sua versione ufficiale. Sui giornali c’erano pagine e pagine di necrologi simili, troppo simili tra di loro. Ad Hadamar c’erano troppo fumo e cenere, le voci cominciavano a correre. Tre preti di campagna alzarono la voce nelle loro parrocchie contro questo orrore. Furono uccisi.
In realtà il progetto continuò in ordine sparso, senza una regia centrale ed in modi diversi. La mortalità negli ospedali psichiatrici esplose, ne morirono tre volte di più che nei centri di uccisione. Si praticò in maniera scientifica la morte per fame, se questa non funzionava si ricorreva ad un’overdose di barbiturici e di psicofarmaci.  Tutto ciò fino a Luglio del 1945, qualche mese oltre la fine della guerra in Europa.
La storia di T4 non ha testimoni perché sovente i protagonisti non sapevano parlare, qualche cattivo ragazzo però sapeva scrivere:
 “Cara mamma! Se ne sono andati e mi hanno lasciato rinchiuso. Cara mamma, io non resisto otto giorni qui con questa gente: io me ne vado, qui non ci resto. Vieni  a prendermi. Anche la mia valigia è rotta, è caduta. Cara mamma, fa qualcosa affinchè la mia richiesta sia esaudita”.


                                                                                Felice Marino
                                                                             aliama1@yahoo.it

sabato 12 maggio 2012

COSA RESTA DA SCOPRIRE

Molti di noi forse ricordano l’ultimo passaggio ravvicinato della cometa di Halley alla Terra nel 1986. Fu un passaggio meno favorevole per le osservazioni: la cometa non raggiunse la luminosità degli incontri precedenti, e , con l’aumento dell’inquinamento luminoso dovuto all’urbanizzazione, molte persone non la videro affatto. Spettacolare fu invece il passaggio del 1910: non solo fu la prima orbita della cometa per la quale esistono fotografie, ma fu anche un passaggio relativamente ravvicinato alla Terra, creò vedute spettacolari e la Terra passò attraverso la sua coda.
Il passaggio della cometa di Halley, che si verifica ogni settant’anni circa, è un evento spesso unico ed irripetibile nella vita di ciascuno di noi, così come un evento straordinariamente importante  per un astrofisico. Ecco allora che il prossimo passaggio della Halley ha stimolato la fantasia dell’astrofisico Giovanni Bignami, il quale nel suo recente saggio “Cosa resta da scoprire”, conscio dell’improbabilità di poter assistere nuovamente allo spettacolo, si chiede che mondo ci sarà dal punto di vista tecnologico e della conoscenza  nel 2062, come potranno cambiare le nostre abitudini e la nostra quotidianità, in definitiva: cosa resta da scoprire?
Tanto per cominciare Bignami fa un personale elenco delle scoperte che nell’ultimo secolo hanno cambiato “tutto”: La relatività generale (1915), la televisione (1927), la penicillina (1928), la fissione nucleare (1938), il computer (1941), la struttura del DNA (1953), il laser (1958), Internet (1989-1992), i pianeti extrasolari (1995), il genoma e la sua mappatura (1999-2003). Difficile dargli torto sul peso che queste scoperte hanno avuto sul cambiamento del nostro modo di vivere, ma se guardiamo al futuro cosa è possibile prevedere?
Per prima cosa guardiamo al cielo. Dal punto di vista dell’esplorazione spaziale ci sarà sicuramente un ritorno dell’uomo nello spazio profondo ed una intensificazione dello studio del nostro sistema solare e dei pianeti presenti nelle regioni galattiche a noi prossime, alla ricerca di pianeti simili al nostro e di altre forme di vita. L’esplorazione umana e quella robotica progrediranno in parallelo su obiettivi diversi. Bignami prevede un rapido passaggio per le navicelle del futuro dalla propulsione chimica a quella nucleare, in grado di proiettare l’uomo nello spazio profondo. Marte è il primo obiettivo, poi probabilmente le lune dei pianeti gassosi e poi ancora più lontano. Rispetto alla ricerca dei pianeti extrasolari lo scopo dichiarato è duplice. Da una parte capire se il fenomeno planetario intorno ad una stella  sia una cosa comune, e già adesso sembra proprio che lo sia. Dall’altra capire quanto siano comuni i pianeti rocciosi rispetto a quelli gassosi ed in generale la morfologia e l’evoluzione planetaria.
L’esplorazione dell’Universo però non può che andare di pari passo con un progresso nello studio e nella comprensione della sua materia e della sua energia.
Il pianeta Nettuno fu scoperto nel 1846 perché faceva sentire la sua attrazione gravitazionale su Urano. Insomma, anche se poi è stato osservato, Nettuno fu scoperto quando era ancora invisibile. Faceva sentire la sua presenza e quindi era prevedibile che esistesse. Qualcosa di simile, ma su scala immensamente più grande, sta succedendo sulle osservazioni su tutto l’Universo dal 1930 ad oggi. Il problema è lo stesso di quello posto da Urano e Nettuno: l’attrazione gravitazionale di una massa non vista. L’unica spiegazione possibile è che intorno alla materia luminosa, le stelle, ci sia dell’altra materia, invisibile almeno all’astronomia fino ad oggi, che la tenga a posto: la cosiddetta materia oscura. Qualcosa sappiamo di questa materia oscura, e cioè che non c’e’ nessuna, ma proprio nessuna possibilità, che sia fatta della stessa materia di cui siamo fatti noi. Non è tutto, infatti misure molto accurate ci dicono che l’Universo sta accelerando incredibilmente la sua espansione. E come se ci fosse una forza esterna che tiri o una interna che spinga, una specie di repulsione tra le galassie, quella che è stata battezzata energia oscura. Sia come energia pura, sia se trasformata in materia attraverso la celebre formula di Einstein, l’energia oscura rappresenta di gran lunga la componente più importante dell’Universo. Facendo due conti, viene fuori che sommando materia oscura ed energia oscura si riempie il 96% dell’Universo, mentre la materia “normale”, quella di cui siamo fatti tutti noi, rappresenterebbe un misero 4%.
Tornando sulla Terra, sul fronte delle fonti energetiche, per il prossimo passaggio della cometa di Halley Bignami prevede grossi passi in avanti sul fronte della fusione termonucleare (il processo che tiene acceso il Sole e le altre stelle) e soprattutto del geotermico. Per nostra fortuna, infatti, dopo miliardi di anni dalla sua nascita, la Terra è ancora ben calda al suo interno. Naturalmente il trasporto del calore in superficie non è uniforme: in certe zone il calore latente terrestre viene fuori in maniera spettacolare, e nascono i vulcani, in altre gradevoli, e ne derivano i bagni termali. Il principio è elementare: se si scava abbastanza a fondo in qualunque punto della Terra il calore aumenta e arriva rapidamente (dopo pochi chilometri in alcuni casi , ovunque in meno di dieci) ben al di sopra del punto di ebollizione dell’acqua. Se versiamo dell’acqua nel buco fatto e continuiamo la perforazione orizzontalmente fino a raggiungere un secondo buco d’uscita, ne uscirà vapore, pronto per l’uso, per esempio per il teleriscaldamento di zone urbane. Con una semplice turbina si potrà avere poi a disposizione energia elettrica infinita, pulita e gratuita. Per quanto riguarda l’energia solare, essa è potenzialmente tanta, ma è poco concentrata, per definizione discontinua e difficile da raccogliere. E’ lecito attendersi dei progressi importanti anche su questo fronte.
Nei prossimi anni sapremo molto di più sul nostro cervello. Oggi sappiamo che il cervello umano, come quello di tutti gli esseri viventi, non ha subito una riprogettazione globale ad ogni passo della sua evoluzione, ma ha semplicemente messo un altro strato su quelli esistenti. Come in un cono gelato a tre gusti sovrapposti, il cervello umano contiene traccia di tre stadi evolutivi. L’enorme corteccia che caratterizza gli umani è il terzo gusto del gelato, posizionato sopra gli altri due, a dimostrare l’ultimo passo dell’evoluzione. Il cervello umano si sarebbe potuto progettare meglio, in modo più efficiente, ma nella sua versione attuale portiamo la traccia evidente della nostra lunga storia evolutiva. La corteccia occupa l’80% della massa del cervello umano e rappresenta la sua parte più complessa, in quanto sede delle funzioni del linguaggio, della memoria, dell’apprendimento e del pensiero. L’intenzione finale è quella di arrivare ad un modello informatico preciso dell’intero cervello, che si spera di poter utilizzare per studiare i processi su cui si basano le funzioni cognitive più importanti. Ci si prova, anche per capire in che modo eventuali malfunzionamenti di circuiti cerebrali possano portare a disturbi della personalità come l’autismo, la depressione o la schizofrenia.
Allo stesso modo è facile prevedere grossi progressi nel campo della genetica e della medicina in generale. Una bambina che nasce oggi in un paese abbastanza ricco ha più del 50% delle possibilità di vivere un secolo. E anche molti maschi, anche se meno delle femmine, ce la faranno. Resta da scoprire esattamente come fare ad aggredire il processo d’invecchiamento e capire fino a che punto sarà possibile allungare la vita. Ovviamente la conoscenza del patrimonio genetico dettagliato di ciascuno di noi sarà sempre più utile per sapere per quali malattie siamo programmati e per poterle prevenire. Tuttavia anche nel genoma decodificato c’è una sorta di “materia oscura”, vale a dire lunghi pezzi di DNA che si estendono tra i geni per i quali al momento si può solo supporre un’attività di controllo sull’attività individuale di ogni gene. Ma soprattutto, e questo è veramente affascinante, resta da scoprire il meccanismo di interazione tra il genoma e l’ambiente circostante. Quello che rende ciascuno di noi un certo tipo di individuo non è solo quello che è scritto nel messaggio genetico. E’ anche il risultato del nostro cibo (o forse di quello dei nostri genitori ed antenati), ma anche dello stress, delle condizioni d’illuminazione e di tanti altri fattori ambientali. La scienza che studia l’interazione tra il genoma e l’ambiente è giovanissima, si chiama epigenetica e da essa ci si aspetta i maggiori progressi, sia teorici che applicativi.
Grandi novità, infine, arriveranno dal settore delle nanotecnologie. Il termine nanotecnologia sta a significare secondo il suo padre scientifico “una tecnologia a livello molecolare che ci potrà permettere di porre ogni atomo dove vogliamo che stia”. Se riuscissimo a inventare un modo di costruire, o meglio far costruire, oggetti partendo da mattoni elementari porremmo le basi per una svolta epocale. Con docili costruttori molecolari il lavoro manuale sarà destinato a scomparire dal futuro. Non è fantascienza: la rivoluzione molecolare è già cominciata, nella chimica farmaceutica per esempio, ed è imminente nella medicina. Le nanotecnologie permetteranno di miniaturizzare un numero sempre maggiore di componenti elettronici e di stendere in modo capillare reti costituite da MEMS, sensori, robot e dispositivi, tutti microscopici e wireless.
Secondo Bignami l’aspetto della nostra vita che più risentirà nei prossimi anni delle tante applicazioni per il futuro sarà quello del trasporto. Verranno sicuramente ottimizzati veicoli, individuali e no, privati o pubblici, per la guida senza intervento umano. Adagiati su un comodo divano antiurto, dovremo semplicemente dire “portami a casa” senza preoccuparci né di ottimizzare l’itinerario, né di prendere multe, né soprattutto di collisioni con altri veicoli. La maggioranza dei veicoli terrestri sarà a propulsione elettrica, grazie all’efficienza che avremo raggiunto con la produzione di energia elettrica dalla geotermia profonda.
La scienza pare quindi indirizzata su obiettivi ben precisi per i prossimi anni. Tante le cose ancora da scoprire. Ma già al prossimo passaggio, nel 2062, la cometa di Halley potrebbe illuminare un mondo diverso, molto diverso, rispetto a quello che oggi conosciamo.



                                                                         Felice Marino
                                                                       aliama1@yahoo.it

sabato 14 aprile 2012

LA FINE DEL LAVORO

Quello del lavoro, e delle norme che lo disciplinano, è sicuramente uno dei temi più dibattuto sulla scena politica italiana ed europea di questi ultimi anni. La crisi economica su scala globale, innescata dai mutui sub-prime americani, ha trasformato la questione del lavoro in un’emergenza che non può essere ulteriormente elusa. Nel mondo occidentale le ragioni della sempre maggiore difficoltà nel trovare un’occupazione, nonchè della fuoriuscita dal mercato del lavoro di milioni di occupati, vengono spesso identificate nella globalizzazione e nella concorrenza di paesi dove il costo della manodopera è molto più basso, nelle importazioni a buon mercato e nelle delocalizzazioni di tante aziende occidentali che hanno trasferito produzione e servizi oltre i confini. Tutto vero, ma quello che spesso si tace è che la causa più profonda della diffusione della disoccupazione è l’aumento vertiginoso della produzione, garantito in ultima istanza  dalla tecnologia e dalle macchine.
Se ne occupa in un bellissimo saggio dal titolo “La fine del lavoro” Jeremy Rifkin, di cui mi sono già interessato commentando il suo più recente “La civiltà dell’empatia”. “La fine del lavoro” ha circa quindici anni di vita, ma è di un’attualità e di una capacità profetica davvero notevole.  Già quindici anni fa, quando una crisi economica come quella attuale sembrava una possibilità impossibile a realizzarsi, egli individuava nel futuro dell’occupazione la questione cruciale del nostro tempo. Nell’introduzione dell’ultima ristampa del 2004 l’americano Rifkin scriveva: “Ogni Paese è alle prese con un vasto dibattito sul futuro del lavoro. Fa i conti con problemi come un’alta disoccupazione, tasse esose, pesanti sistemi di previdenza sociale e contorti regimi regolativi, che secondo alcuni non fanno che perpetuare la stagnazione economica. Mentre i politici e i leader del mondo degli affari e del lavoro si accapigliano su come elaborare una politica del lavoro flessibile, abbassare le tasse e riscrivere le regole che governano previdenza sociale e assegnazione delle pensioni, la vera causa della disoccupazione globale non viene affrontata nel dibattito politico pubblico. Se la chiave per la creazione di nuovi posti di lavoro fosse solo l’attuazione delle riforme menzionate, allora gli Stati Uniti dovrebbero sperimentare un’occupazione massiccia. Dopo tutto , abbiamo effettivamente fatto tutte le riforme che altri paesi stanno cercando ora di realizzare. Eppure i lavoratori americani se la passano male.”
Attuale, no? Va aggiunto che gran parte del miracolo economico americano dei tardi anni Novanta fu dovuto essenzialmente ad un’estensione senza precedenti del credito al consumo, che ha consentito agli americani di aumentare follemente le spese, ma poi, come la crisi dei sub-prime ha dimostrato, i nodi sono venuti al pettine e parte di questo debito ormai fuori controllo è stato regalato a milioni di risparmiatori ignari in giro per il mondo.
E allora la vera questione è: se gli straordinari progressi nella produttività, nella forma di una tecnologia meno costosa e di più efficienti metodi di organizzazione del lavoro possono sempre più prendere il posto dell’operare dell’uomo, con la fuoriuscita di un sempre maggior numero di persone dal mondo del lavoro come risultato, da dove verrà la domanda di beni di consumo sufficiente a comprare tutti i nuovi prodotti e i servizi potenziali resi disponibili dall’aumento della produttività? In realtà siamo costretti ad affrontare una contraddizione inerente al cuore stesso del capitalismo, presente dal principio, ma che solo ora sta diventando inconciliabile. Infatti il capitalismo di mercato è in parte costituito sulla logica della riduzione dei costi del fattore produttivo, incluso il costo del lavoro, al fine di creare sempre maggiori margini di profitto. C’è una continua ricerca di nuove tecnologie meno costose e più efficienti per abbattere i salari o eliminare del tutto la manodopera umana. Le nuove tecnologie intelligenti possono sostituire buona parte del lavoro umano, sia fisico che intellettuale. La contraddizione sta nel fatto che estremizzando tutto questo rischiamo di avere supermercati pieni di merci, che nessuno però è in grado di comprare.
Naturalmente la nuova era porterà con sé ogni genere di nuovi beni e servizi che, a loro volta, richiederanno nuove abilità occupazionali, soprattutto nell’arena della conoscenza più sofisticata. Questi nuovi posti di lavoro, tuttavia, per loro natura, saranno rari ed elitari. Non vedremo mai più migliaia di lavoratori affollarsi all’uscita dei cancelli della fabbrica e dai centri di servizi come succedeva nel ventesimo secolo.
La prima vittima delle tecnologie intelligenti è stata l’agricoltura. Oggi negli Stati Uniti solo il 2,7% della popolazione è occupata direttamente o indirettamente nel settore agricolo. Secondo gli esperti, la possibilità di una completa automazione di tutti i processi produttivi di un’azienda agricola non dista più di vent’anni. Inoltre nel prossimo mezzo secolo l’agricoltura tradizionale è probabilmente destinata a sparire, vittima delle forze tecnologiche che stanno rapidamente sostituendo le attività agricole all’aperto con la manipolazione delle molecole nei laboratori. Mentre la prima rivoluzione tecnologica agricola comportò la sostituzione della forza animale e del lavoro umano con macchine ed agenti chimici, l’emergente rivoluzione biotecnologica giungerà presto a sostituire la coltivazione della terra con le colture di laboratorio, cambiando per sempre il modo in cui il mondo vede la produzione di cibo.
Anche l’industria è destinata in tempi rapidi a sperimentare un’occupazione prossima a quella del settore agricolo. La robotica ha reso l’idea della fabbrica senza operai un obiettivo raggiungibile, in alcuni casi già sperimentato.
Le nuove tecnologie, infatti, stanno aiutando tante aziende dei paesi occidentali a competere in termini di costo con quelle che operano nei paesi del Terzo mondo e che beneficiano di manodopera a costi contenuti. Quanto più il processo produttivo si conforma al dettato dell’automazione, tanto più anche paesi esportatori come la Cina e l’India saranno costretti ad adeguarsi a metodologie di produzione meccanizzata più veloci ed economiche rispetto alle tradizionali tecniche ad elevata intensità di lavoro. Non è un caso che in quasi tutte le più importanti attività manifatturiere, il lavoro umano è stato massicciamente sostituito da surrogati meccanici. Oggi milioni di uomini e donne si ritrovano chiusi in trappola tra due ere economiche, sempre più marginalizzati dall’avvento di nuove tecnologie. La figura classica dell’operaio della catena di montaggio è una figura destinata all’estinzione.
Un effetto apparentemente sottostimato sta nel fatto che le nuove tecnologie informatiche iniziano rapidamente a conquistare spazio anche nel terziario, il cosiddetto settore dei servizi, il settore che di fatto ha accolto sino ad oggi milioni di occupati fuoriusciti dal settore agricolo ed industriale. Le nuove macchine pensanti sono capaci di eseguire molte delle mansioni intellettuali che oggi vengono svolte dagli esseri umani, con il vantaggio della maggiore velocità. L’ufficio completamente digitalizzato non è affatto un’utopia. Già oggi, in tante realtà, l’assistenza ai clienti è gestita da un sistema di posta vocale e lo sarà sempre di più. Nei centri commerciali l’automazione alle casse ed in tanti altri servizi minaccia di “disoccupare” migliaia di persone. Per non parlare della rete, dell’autostrada informatica che è pronta ad offrire un’alternativa a basso costo anche nel settore del commercio, della conoscenza e delle arti (incluso la musica, il cinema etc. ). L’e-commerce è sempre più una realtà e sta completamente rivoluzionando il sistema commerciale tradizionale.
Quale scenario abbiamo dunque davanti a noi? Il sogno della liberazione dal lavoro rischia di trasformarsi in un incubo per milioni di lavoratori? Liberare intere generazioni dalle lunghe ore trascorse sul posto di lavoro potrebbe annunciare un secondo Rinascimento per la razza umana oppure portare a una grande divisione ed allo sconvolgimento sociale.
Rifkin intravede due possibili scenari, uno distopico (negativo) ed uno utopico (positivo). Il fatto che la visione del futuro futuro sia distopica o utopica dipende, in larga misura, da come verranno ripartiti i guadagni conseguiti grazie alla maggiore produttività. Una distribuzione ispirata a principi di giustizia ed equità prevederebbe una diminuzione dell’orario lavorativo in tutto il mondo e uno sforzo concertato dei governi centrali per fornire alternative di occupazione nel “terzo settore” (l’economia sociale) agli individui espulsi dal mercato del lavoro. Se, invece, i guadagni di produttività realizzati grazie alle alte tecnologie non venissero condivisi (ma utilizzati prevalentemente per incrementare i profitti d’impresa, a esclusivo beneficio di azionisti e top-managers) ci sono ampie probabilità che la crescente spaccatura tra ricchi e poveri conduca a sollevazioni sociali su scala mondiale.
Lo scenario distopico è facilmente intuibile e trova una sua spia accesa nel drammatico aumento della criminalità e della violenza diffusa, tanto nei paesi industrializzati quanto in quelli emergenti. Esse danno una chiara immagine dei pericoli che ci aspettano. L’aumento delle comunità-fortezza riflette sia la preoccupazione per la sicurezza personale quanto il rifiuto delle responsabilità di fronte alla società. Il futuro di milioni di persone estromesse dal mercato del lavoro può, secondo molti analisti, essere ben rappresentato dal destino della gente di colore urbanizzata negli Stati Uniti, storicamente vittima prima delle nuove tecnologie agrarie negli stati del sud e poi dell’avvento dell’automazione e delle macchine a controllo numerico nell’industria degli stati del nord. Le conseguenze sono lucidamente descritte dallo studioso Nathan Gardel :” Dal punto di vista del mercato, i ranghi sempre più grandi dei disoccupati devono affrontare un destino persino peggiore del colonialismo, vale a dire l’irrilevanza economica. Non abbiamo bisogno di ciò che offrono e loro non possono comprare ciò che noi vendiamo. E’ prevedibile per loro un futuro sempre più lontano dalla legalità e dalla giustizia, in un mondo caratterizzato da isole di ordine in un oceano di caos”.
Al contrario lo scenario utopico, secondo Rifkin, non può che essere ispirato  dalla necessità di evitare la suddivisione della società tra chi ha un lavoro e non ce l’ha. L’esperienza francese sulla riduzione dell’orario di lavoro, in cambio di sgravi alle imprese, è stata forse troppo frettolosamente archiviata. Le rivendicazioni dei lavoratori sui profitti, in forma di salari più alti e riduzioni di orario, sono sempre state considerate illegittime e perfino parassitarie. E’ possibile che la resistenza delle imprese si attenui davanti alla consapevolezza della necessità di saldare la frattura tra la maggiore capacità produttiva e la caduta del potere d’acquisto dei consumatori. Michael Hammer sostiene però, probabilmente a ragion veduta, che la riduzione dell’orario lavorativo si può fare solo se applicata da tutti. In caso contrario non si fa altro che innalzare il costo del prodotto. Egli ipotizza un sistema di tariffe doganali determinato sulla base di un indice che misura il livello delle retribuzioni e delle ore lavorate nei paesi di provenienza dei beni esportati.
In realtà accordi come il GATT, Mastricht ed il NAFTA hanno cambiato il rapporto tra governi e commercio, trasferendo sempre più potere dagli stati nazionali alle imprese globali. Il ruolo geopolitico dello stato nazionale si va affievolendo, lo stesso accade per la sua funzione di datore di lavoro di ultima istanza. Messi in difficoltà dal crescente indebitamento a lungo termine e dal deficit di bilancio, gli stati sono meno disposti ad imbarcarsi in ambiziosi progetti di spesa e di lavori pubblici al fine di creare occupazione e stimolare il potere d’acquisto. Molti allora guardano al terzo settore, altrimenti noto come indipendente e volontario, dove la cessione volontaria del proprio tempo prende il posto delle relazioni di mercato imposte artificialmente e fondate sulla vendita di se stessi e dei propri servizi agli altri. Il terzo settore già occupa un’ampia porzione della vita sociale. Le attività di volontariato spaziano dai servizi sociali all’assistenza sanitaria, dall’istruzione alla ricerca, alle arti, alla religione, alla difesa legale. Negli Stati Uniti il terzo settore contribuisce all’economia del paese per il 6%, è responsabile del 9% dell’occupazione, ha un patrimonio netto quasi equivalente a quello del governo federale. Questo è reso possibile dal fatto che la maggior parte delle organizzazioni che non hanno scopo di lucro sono esentate dal pagamento delle imposte e che chi dona a loro beneficio può dedurre integralmente dal reddito imponibile.
 Il servizio alla collettività è un’alternativa rivoluzionaria alle forme tradizionali di lavoro. E’ prima di tutto un atto di aiuto, un offrirsi agli altri, uno scambio sociale, sebbene abbia spesso conseguenze economiche sia per il beneficiario, sia per il benefattore. A questo riguardo l’attività comunitria è sostanzialmente differente da quella di mercato, nella quale lo scambio è sempre di natura materiale e finanziaria e le conseguenze sociali sono meno rilevanti dei guadagni economici. Oggi, in tanti paesi occidentali, le organizzazioni del volontariato servono milioni di persone in tanti quartieri e comunità; la loro estensione spesso oscura il privato ed il pubblico, toccando e condizionando la vita di tanti cittadini, talvolta più profondamente di quanto facciano le forze del mercato e la burocrazia statale.
Se per chi lavora e si dedica al volontariato si è proposto una sorta di salario ombra, sottoforma di esenzioni e deducibilità, per chi non lavora si è parlato di un vero e proprio salario sociale che sostituisca le varie indennità o sussidi. Piuttosto che elargire denaro a fondo perso si potrebbe trasformare il sussidio in un servizio alla collettività. Un salario sociale non sarebbe  di conforto solo a chi lo riceve, ma anche utile all’intera comunità che beneficia di tali attività volontaristiche.
D’altra parte già l’economista Robert Theobald sosteneva che, dal momento che l’automazione avrebbe continuato ad aumentare la produttività e ad eliminare lavoratori, sarebbe stato necessario rompere il tradizionale legame tra reddito e lavoro. Con una quota sempre maggiore di lavoro svolto dalle macchine, gli esseri umani avrebbero avuto la necessità di un reddito garantito, indipendentemente dall’occupazione nell’economia di mercato. Ciò per sopravvivere e per disporre di un potere d’acquisto sufficiente a procurarsi beni e servizi. Secondo Theobald il reddito minimo garantito rappresentava la possibilità di mettere in pratica quella convinzione filosofica fondamentale che attribuisce ad ogni individuo il diritto ad una quota minima della produzione realizzata nella società.
La proposta di un reddito minimo garantito ha trovato incredibilmente favorevole anche Milton Friedman, il più celebre tra gli economisti neoconservatori, che sosteneva, da un diverso punto di vista, che sarebbe stato meglio dare ai poveri un reddito minimo garantito, piuttosto che continuare a finanziare la pletora di programmi sociali di stato, talmente burocratizzati da perpetuare la povertà invece che lenirla.
I riformatori di oggi, come accennato prima, tendono ad agganciare il diritto ad una garanzia di reddito alla disponibilità del disoccupato a prestare attività di volontariato nel terzo settore. L’economia sociale pare rappresentare l’ultima speranza di costruire una struttura istituzionale alternativa per una civiltà in transizione.
In definitiva ci stiamo affacciando in una nuova era di mercati globali e produzione automatizzata, dalla strada che imboccheremo dipenderà il nostro futuro.

                                                                         Felice Marino
                                                                       aliama1@yahoo.it