venerdì 30 dicembre 2011

L' IMPERATORE DEL MALE

La malattia del cancro è descritta da almeno quattromila anni e continua a rappresentare ai giorni d’oggi una delle più grandi piaghe per gli esseri viventi, si calcola che mediamente ogni anno circa otto milioni di persone in tutto il mondo ne muoiano.  “L’imperatore del male”, premio Pulitzer per la saggistica nel 2011, di Siddharta Mukherjee, ricercatore oncologo e docente alla Columbia University, è il racconto dell’epica lotta contro questa malattia. Si tratta di una guerra millenaria fatta di incessanti battaglie, piccole vittorie e grandi sconfitte, combattuta da medici ed eroi, da geni della ricerca ma soprattutto da gente comune.
Il cancro si avvia oggi a diventare rapidamente la prima causa di morte al mondo e questo tuttavia dipende prevalentemente da un progressivo aumento dell’età media e dell’aspettativa di vita. Infatti l’aumento dell’incidenza del cancro, in particolare di alcuni tipi di cancro, dipende dal fatto che nelle società antiche le persone non vivevano abbastanza a lungo per ammalarsene. La civilizzazione più che causare il cancro lo ha reso più visibile, mentre sicuramente ha inciso sul cambiamento dello spettro dei tumori aumentando l’incidenza di alcuni, riducendo l’incidenza di altri. Il cancro allo stomaco, ad esempio, è stato sicuramente molto più diffuso in certe fasce di popolazione fino alla fine del diciannovesimo secolo, probabilmente a causa della presenza di sostanze cancerogene nei conservanti. Al contrario l’incidenza di cancro ai polmoni è drammaticamente aumentata a partire dagli anni Cinquanta come risultato dell’inquinamento atmosferico e della diffusione delle sigarette all’inizio del ventesimo secolo, e deve ancora raggiungere il picco più alto.
In realtà il cancro non è una malattia, ma un complesso di malattie che hanno un’origine e spesso manifestazioni diverse. Le chiamiamo tutte “cancro” perché hanno in comune una caratteristica fondamentale: una crescita cellulare abnorme e la capacità di queste cellule di migrare producendo delle metastasi.
All’inizio del secolo scorso l’approccio al cancro era praticamente solo chirurgico. I sostenitori della chirurgia radicale, molto in voga per un lungo periodo, si erano illusi del fatto che per evitare le metastasi o le recidive fosse necessario asportare chirurgicamente i tumori ben al di là della loro estensione, sottoponendo i pazienti ad interventi tanto inutili quanto macabri e fisicamente devastanti. Successivamente i pionieri della moderna chemioterapia ( terapia a base di sostanze chimiche ), nata quasi casualmente a partire dalle centinaia di sostanze chimiche sviluppate inizialmente dall’industria tessile per colorare i tessuti di cotone, credettero, a partire da Sidney Farber in poi, alla possibilità  che esistesse una sorta di pallottola magica nel trattamento del cancro, costituita da uno o più farmaci somministrati contemporaneamente. Ciò li espose, fatto salvo piccoli successi, a numerosi e scoraggianti fallimenti. Questi insuccessi avevano la loro origine tanto nella forza e nell’eclettismo del nemico quanto in una non conoscenza dello stesso. Si procedeva sostanzialmente alla cieca e per tentativi.
Ciò nonostante a partire dalla seconda metà del secolo scorso, sebbene si brancolasse praticamente nel buio, furono fatte scoperte degne di nota: l’attività degli antifolati e di altri chemioterapici nel trattamento delle leucemie; l’impiego vincente di raggi X e chemioterapici nel morbo di Hodgkin;  la terapia antiormonale nei tumori alla prostata ed al seno; la relazione tra la fuliggine ed il cancro allo scroto (il cancro degli spazzacamino); la relazione tra il fumo di sigaretta ed il cancro al polmone (una delle più forti dell’epidemiologia oncologica, durevole nel tempo e riproducibile studio dopo studio) così come quella tra l’esposizione all’amianto ed il mesotelioma (rara e maligna forma di tumore al polmone); la relazione possibile tra l’infiammazione prodotta dal virus dell’epatite ed il cancro al fegato così come quella causata dall’Helicobacter pylori ed il cancro allo stomaco. Tali scoperte hanno contribuito in alcuni casi ad una migliore gestione della malattia, sicuramente ad una fondamentale campagna di prevenzione, raramente a risoluzioni definitive, nonostante un sempre più vasto impiego negli anni di risorse e menti.
Quest’epoca quasi adolescenziale dell’oncologia si è di fatto chiusa negli anni Novanta. La disciplina si è progressivamente allontanata dalla sua infatuazione per soluzioni universali e cure radicali, affrontando finalmente questioni fondamentali sul cancro. Quali erano i principi di base che regolavano il comportamento di una specifica forma di cancro? Cosa c’era di comune a tutti i cancri, e cosa rendeva il tumore al seno diverso da quello al polmone o alla prostata? Potevano quei percorsi comuni o quelle differenze aprire nuove strade per la prevenzione e la cura del cancro? Occorreva rivolgersi alla biologia di base e ripartire da essa, occorreva cioè capire intimamente il cancro, i cancri, per poterli contrastare efficacemente.
Già all’inizio degli anni Cinquanta i ricercatori erano divisi in tre fazioni “in lotta”. I virologi sostenevano che erano i virus a causare il cancro, anche se nessuno di tali virus era stato identificato in studi umani. Gli epidemiologi sostenevano che erano sostanze esogene a causare il cancro, anche se non erano in grado di fornire una spiegazione meccanicistica per la loro teoria e nemmeno i risultati. La terza fazione era periferica nel dibattito e pensava ai geni interni alla cellula, senza la quantità di dati degli epidemiologi né le intuizioni sperimentali dei virologi. Nei decenni successivi, grazie agli enormi progressi compiuti nella biologia di base, si verificò che sia taluni virus in certi rari casi che alcune  sostanze endogene in altri erano in grado di produrre il cancro. In entrambi i casi però ciò avveniva attraverso una mutazione genetica, e questo non attraverso l’inserimento dall’esterno di geni estranei bensì attraverso l’attivazione di proto-oncogeni endogeni, cioè di geni normalmente presenti nel nostro DNA ove in individui sani presiedono a funzioni fisiologiche, prevalentemente legate alla riproduzione cellulare. In sostanza, come disse Varmus, premio Nobel per la medicina insieme a Bishop nel 1989, “ si è svelato che la cellula tumorale non è altro che una versione distorta di noi stessi”.
Le sostanze che provocano mutazioni nel DNA causano cancri perché alterano i proto-oncogeni cellulari. Questo chiarisce perché è possibile  che lo stesso genere di cancro possa colpire ad esempio fumatori e non fumatori, benché in percentuali diverse: entrambi hanno gli stessi proto-oncogeni nelle loro cellule, ma i fumatori si ammalano di cancro in una percentuale più alta perché le sostanze cancerogene nel tabacco aumentano il tasso di mutazione di questi geni.
Và aggiunto, come dimostrato da Vogelstein negli anni Novanta, che il cancro non nasce direttamente da una cellula normale. Il cancro spesso procede molto lentamente verso la propria evoluzione ultima, subendo una successione discreta di mutazioni ed accumulandole nel tempo, da una cellula pienamente normale ad una schiettamente maligna. Decenni prima che il cancro alla cervice evolva nella sua manifestazione ferocemente invasiva, nel tessuto è già possibile osservare un vortice di cellule non invasive e premaligne che muovono i primi passi nella loro terribile marcia verso il cancro (da qui deriva l’utilità del Pap Test) . In maniera simile cellule premaligne si riscontrano nei polmoni dei fumatori prima della comparsa di un tumore. Anche il cancro al colon progredisce per gradi e successive mutazioni, da una lesione premaligna non invasiva, detta adenoma, allo stadio terminale detto carcinoma invasivo.
Ora il passaggio da uno stadio premaligno a un cancro invasivo, grazie ai progressi della biochimica, può oggi essere correlato in maniera precisa all’attivazione ed alla disattivazione di nostri geni in una sequenza rigida e stereotipata. Perlomeno in una maniera molto semplificata, la quantità delle mutazioni è spesso scoraggiante. Tuttavia dalla metà degli anni Novanta ad oggi, grazie alle nuove tecniche di DNA ricombinante ed allo splicing ( l’inserimento di specifici geni nel genoma di specifici microrganismi, che permette di far produrre a questi ultimi determinate proteine con proprietà antigeniche in quantità industriali ), solo il National Cancer Institute americano ha identificato almeno una trentina di nuovi farmaci come terapie antitumorali mirate ed altri se ne stanno sviluppando. Alcuni disattivano direttamente gli oncogeni, altri i cicli cellulari attivati dagli oncogeni. Tutto ciò unitamente al perfezionamento delle tecniche chirurgiche e all’esperienza maturata sulla chemioterapia classica, ma soprattutto grazie ad una buona politica di prevenzione, ha prodotto tra il1990 ed il 2005 una riduzione della mortalità per cancro di circa il 15%. Un ottimo risultato, ma nessuna distrazione è consentita: c’è ancora molto da scoprire e la malattia trova sempre nuove strade, le campagne di prevenzione possono perdere la necessaria tensione e nemmeno il panorama delle sostanze cancerogene è statico. Abbiamo creato un universo chimico intorno a noi ed i nostri geni vengono sollecitati da molecole sempre diverse quali pesticidi, farmaci, cosmetici, materie plastiche, prodotti alimentari, perfino forme diverse di impulsi fisici, come le radiazioni ed il magnetismo. Alcune di queste sostanze ed impulsi saranno inevitabilmente cancerogeni ed è nostro compito non abbassare la guardia.
In sostanza, come afferma l’oncologo Harold Burstein, il cancro è l’interfaccia tra la società e la scienza. C’è una sfida biologica, che consiste nello sfruttare l’incredibile progresso delle conoscenze scientifiche per sconfiggere questa malattia antica e terribile, ed una sfida sociale, che consiste nel mettere in discussione le nostre abitudini, i nostri riti ed i nostri comportamenti. Sfortunatamente “ non si tratta di abitudini o comportamenti marginali rispetto alla società e  a noi stessi, ma di qualcosa che si trova proprio dentro di noi: cosa mangiamo e beviamo, cosa produciamo e diffondiamo nell’ambiente, quando scegliamo di riprodurci e come invecchiamo “.
Quindi poiché le mutazioni sono talvolta prodotte da qualcosa di ineludibile, che fa parte del nostro stesso vivere, e poiché tali mutazioni si accumulano inevitabilmente dentro di noi giorno dopo giorno, e’ possibile che siamo fatalmente congiunti a questa malattia cronica, costretti a giocare come il gatto con il topo. Dovremmo forse allora ridefinire l’idea di successo nella guerra contro il cancro. Come ha detto qualcuno “la morte in età avanzata è inevitabile, la morte prima dell’età avanzata no”. E allora se le morti per cancro possono essere prevenute prima di un’età troppo avanzata, se possiamo allungare sempre di più il terribile gioco di trattamento, resistenza, ricorrenza e altro trattamento, allora tutto questo trasformerà il modo in cui noi immaginiamo questa malattia antica. Sarebbe comunque una vittoria tecnologica sulla nostra inevitabilità, una vittoria sul nostro genoma.


                                                                       Felice Marino
                                                                    aliama1@yahoo.it

venerdì 18 novembre 2011

Bistrot Philo 17a puntata. "Lezioni di addio"


“La caratteristica di una vita morta è di essere una vita di cui l’altro diventa il guardiano” J.P. Sartre

I morti con cui abbiamo avuto una relazione, non importa se di amore o di odio, non muoiono mai. La loro morte, infatti, per quanto ritualizzata e lenita dalle parole che la retorica mette a disposizione, o da quegli indecenti applausi che accompagnano le bare, perché non siamo più capaci né di raccolto silenzio né di giuste parole, chiede innanzitutto il riconoscimento della loro esistenza e della nostra relazione.
Perché in una relazione, non importa se di amore o di odio, quando uno se ne va prima dell’altro, l’altro resterà per dire il suo nome, se non altro per non farlo semplicemente ri-morire. Altri infatti ci seppellisce, altri ci ricorda, altri ci dimentica. La nostra morte è un evento degli altri, perché chi muore non sente e non risponde più.
Qui la fedeltà consiste nell’arrendersi all’evidenza, nel prendere sul serio il non ascolto e la non risposta di chi se ne è andato.
Un invito a vivere fino in fondo le relazioni da vivi, perché, dopo la morte di uno dei due, la relazione si custodisce nell’interiorità di chi sopravvive, ma l’altro non risponde. E questa non risposta sigilla la nostra inoltrepassabile solitudine, che forse è la realtà ultima della nostra esistenza, che si rivela solo quando il nostro amico o nemico se ne va. Ma quando uno se ne va prima dell’altro, l’altro resterà per dire il suo nome, non per rievocarne la memoria, ma per custodirlo nell’interiorità.

                                                                   U. Galimberti

Questo "lo spunto" della 17a puntata del Bistrot Philo di giovedi 24 Novembre alle ore 2130, dedicata alla memoria di Micaela Iachetta scomparsa tragicamente una settimana fa all'età di 23 anni.
Potete partecipare lasciando un vostro pensiero su questo post o all'indirizzo di posta elettronica aliama1@yahoo.it

martedì 15 novembre 2011

Un ricordo di Miky

E’ difficile trovare le parole di fronte alla tragica morte di una ragazza di 23 anni, lo è ancora di più se con quella ragazza hai condiviso un’esperienza di vita rallegrandoti intimamente della spontaneità e della trasparenza tipica di quella età.
Durante la mia segreteria avevo da subito individuato in lei la persona più vicina al mio modo di pensare, le avevo affidato un ruolo di riferimento per i giovani, mi piaceva pensare a lei come futuro segretario in un tempo non tanto lontano. Mi avevano colpito la sua schiettezza, il coraggio di esprimere sempre la propria opinione ed un’innata capacità di cogliere istantaneamente gli stati d’animo di ciascuno.
Miky riassumeva in quel contesto gran parte di ciò che di bello vedevo intorno a me ed ancora oggi, a distanza di tempo dalle mie dimissioni, se penso a quel periodo il primo pensiero è per lei. Per me rappresentava un piccolo tesoro da proteggere e se possibile valorizzare. Non mi era sfuggito infatti il suo bisogno di trovare persone di cui potersi fidare, di cui avere fiducia, una fiducia che personalmente credo di non avere mai tradito.
La ricordo con affetto correre a scusarsi per essere arrivata in ritardo ad un corso che avevamo organizzato perché gli avevano “solo” rubato l’auto, o andare via con la bottiglia vuota dell’aperitivo che le avevo offerto in un briefing improvvisato, o ancora arrivare a votare al rinnovo del coordinamento all’ultimo secondo prendendosi gioco amabilmente delle mie ansie.
E’ stata l’unica persona che ho sentito prima della riunione che ha determinato le mie dimissioni e, quando mi ha espresso con franchezza un’idea diversa dalla mia, l’ho invitata a votarmi contro senza esitazione pur sapendo che avrei potuto condizionarla e che quel voto poteva essere determinante. Miky infatti veniva prima di tutto.
Abbiamo continuato a tenerci in contatto anche dopo che le strade si erano separate attraverso i social networks. Ne seguivo a distanza con affetto le evoluzioni e le avventure, rappresentando tra l’altro per me un’istruttiva e simpatica finestra sul mondo giovanile, con i suoi sogni ed i suoi disagi.
Improvvisamente però quella fiamma si è spenta, in maniera tragica e profondamente ingiusta. Mi mancherà, ci mancherà.
A tutti coloro che l’hanno conosciuta e le hanno voluto bene il compito di tenerne viva la memoria, se è vero come è vero che una persona è veramente morta solo quando l’ultima persona che l’ha conosciuta non c’è più. A noi tutti il compito di stringerci amorevolmente intorno ai suoi genitori ed ai suoi familiari.
Ciao Miky


                                                                       Felice Marino  

domenica 6 novembre 2011

Prevedibilmente irrazionale

PREVEDIBILMENTE IRRAZIONALE
Noi tutti siamo convinti di essere razionali e le teorie economiche tradizionali si fondano proprio su questo assunto, o meglio sull’idea semplice ed irresistibile che noi siamo capaci di prendere le decisioni giuste per noi stessi. Nel suo libro “Prevedibilmente irrazionale” Dan Ariely, esperto di economia comportamentale, tratta al contrario il tema dell’irrazionalità dell’uomo, della sua distanza dalla perfezione. Anzi la tesi è che non solo siamo irrazionali, ma lo siamo in modo prevedibile, nel senso che la nostra irrazionalità si manifesta allo stesso modo ed allo stesso modo si ripete. A supporto di questa tesi Ariely offre i risultati di una serie di studi comportamentali, da lui stesso effettuati, alcuni dei quali mi piace simpaticamente condividere con voi.
Raramente le persone scelgono le cose in termini assoluti. Noi non siamo provvisti di uno strumento di misura incorporato, una sorta di metro interiore, che ci dice quanto valgono le cose in sé. Mediamente mettiamo a fuoco il vantaggio relativo di una cosa rispetto ad un’altra e ne stimiamo il valore di conseguenza. Noi guardiamo sempre alle cose che ci circondano in relazione alle altre e non possiamo farci niente, così metteremo sempre a confronto lavori con altri lavori, vacanze con vacanze, amanti con amanti e vini con vini. Tuttavia noi non solo tendiamo a paragonare le cose l’una con l’altra ma tendiamo anche a paragonare tra loro le cose facilmente paragonabili evitando di fare lo stesso con altre che non è semplice paragonare e questo i venditori lo sanno bene.
Difficile? No, facciamo un esempio. Supponiamo che stiate per acquistare una casa in una nuova città. Il vostro agente immobiliare ve ne fa visitare tre, tutte e tre interessanti solo che una casa è moderna e due sono in stile coloniale (cosa per voi trascurabile ). Tutte e tre sono nella stessa fascia di prezzo e tutte e tre sono appetibili. L’unica differenza è che una delle due case coloniali (l’esca) ha bisogno di un tetto nuovo e il proprietario ha diminuito il prezzo di poche migliaia di euro per coprire la spesa aggiuntiva.
Quale scegliereste? Ci sono buone probabilità che non scegliate la casa moderna e non scegliate la casa coloniale che ha bisogno di un tetto nuovo, ma l’altra casa coloniale. Perché? Il fondamento logico ( piuttosto irrazionale ) è che a noi piace prendere decisioni sul confronto. Di conseguenza saremo portati a scartare la casa moderna, non confrontabile, ed a preferire la casa coloniale in migliori condizioni che ci sembrerà preferibile a quella con il tetto da rifare.
Facciamo un altro esempio dell’effetto esca. Supponiamo che stiate pianificando di andare in luna di miele in una capitale europea e che siate indecisi tra Parigi e Vienna, le vostre città preferite (la condizione deve essere che non abbiate un gradimento privilegiato in partenza). Ora l’agente di viaggio vi presenta il pacchetto per entrambe le città, che comprende biglietto aereo, sistemazione in hotel, giro turistico della città e prima colazione inclusa. Supponiamo adesso che vi offrano in aggiunta una terza opzione e cioè Parigi senza colazione inclusa e senza una rilevabile differenza di prezzo (l’esca). Ci sono buone probabilità che scegliate Parigi con la colazione. Il meccanismo è sempre lo stesso, irrazionale e prevedibile.
Andiamo oltre. Non è un segreto: ricevere qualcosa gratuitamente è una gran bella sensazione. Si scopre che zero non è un prezzo come un altro. La parola GRATIS ci da una tale carica emotiva che percepiamo l’oggetto offerto come se valesse molto di più di quanto vale in realtà. Probabilmente dipende dal fatto che gli esseri umani hanno una paura intrinseca della perdita. Il fascino della parola GRATIS è legato a questa paura. Pensiamo ad esempio alle librerie on line che talvolta offrono la spedizione GRATIS a patto che si acquisti un libro in più o che si raggiunga un certo tetto di spesa. E’ probabile che una buona parte dei potenziali acquirenti pur non desiderando due libri siano disposti ad acquistarli pur di ottenere quella spedizione GRATIS. E’ molto facile cadere nella trappola di acquistare qualcosa che magari non si desidera per via di quella sostanza appiccicosa che si chiama GRATIS. La differenza tra due centesimi ed un centesimo è minima, ma la differenza tra un centesimo e zero è enorme.
Un’altra caratteristica umana è la tendenza ad attaccarci immediatamente a ciò che abbiamo, il caro prezzo della proprietà. In effetti la proprietà virtuale è la molla principale della pubblicità. Vediamo una coppia felice su un’auto sportiva decappottabile e immaginiamo di essere al loro posto. Riceviamo il catalogo di un famoso marchio d’abbigliamento, vediamo un capo che ci piace e immediatamente cominciamo a pensarlo nostro. Diventiamo proprietari parziali dell’oggetto anche prima di possederlo e c’e’ un altro modo di essere attirati nella trappola della proprietà. Spesso le aziende offrono promozioni “di prova”. Se abbiamo acquistato l’abbonamento al pacchetto base di programmi di una tv satellitare, ci possono allettare con una promozione speciale in cui il pacchetto completo ci viene offerto per tre mesi a 15 euro mensili invece che a 60. Ci diciamo che è comunque una prova e possiamo sempre tornare al pacchetto base una volta trascorsi i tre mesi. Ma una volta provato il pacchetto completo lo sentiamo subito nostro. Molti non torneranno più al pacchetto base. Un altro esempio dello stesso stratagemma è la formula “soddisfatti o rimborsati entro 30 giorni”.
Un’ultima considerazione, tra le tante offerte da questo interessante e divertente libro, riguarda gli effetti delle aspettative. Se dite prima a qualcuno che una cosa può non piacergli, ci sono buone probabilità che finisca per darvi ragione, non perché glielo dice l’esperienza ma a causa delle sue aspettative. Un po’ di anni fa alcuni studenti universitari americani furono coinvolti da Ariely in un semplice esperimento. Per una settimana fu offerto loro una tazza di caffè in cambio della loro disponibilità a rispondere ad alcune domande sulla miscela. Si formò subito la coda. Ricevuta la tazza di caffè veniva indicato agli studenti un tavolo su cui erano disposti latte, panna, zucchero bianco e di canna da aggiungere a piacimento alla bevanda. Sul tavolo c’erano anche alcuni ingredienti esotici (paprica dolce, noce moscata, chiodi di garofano etc.) pensati per lo stesso uso. Quindi veniva consegnato ai ragazzi un breve questionario dove avrebbero dovuto indicare quanto gli era piaciuto il caffè, se in futuro avrebbero voluto trovarlo a mensa e se sarebbero stati disposti a pagare per quel tipo di miscela. Durante la settimana furono cambiati quotidianamente solo i contenitori degli ingredienti esotici, passando da alcuni lussuosi ad altri meno, fino a semplici contenitori di polistirolo. La cosa incredibile è che nessuno utilizzò gli ingredienti esotici, ma se questi erano presentati in contenitori lussuosi era più probabile che gli studenti dicessero che il caffè gli piaceva molto e che sarebbero stati disposti anche a pagare per averlo. Se l’atmosfera al contrario era di basso livello anche il caffè veniva percepito come tale. Inutile ribadire che il caffè era sempre lo stesso.
Sostanzialmente quando crediamo che una cosa sia buona, in genere lo sarà. E quando crediamo che una cosa sia cattiva, lo sarà allo stesso modo. Ma quanto sono profonde queste influenze? Si limitano a cambiare le nostre convinzioni o cambiano anche la fisiologia dell’esperienza stessa? In altre parole, la conoscenza modifica realmente l’attività neurale alla base del gusto così che quando ci aspettiamo che una cosa sia buona (o cattiva) finirà per avere proprio quel gusto? Altri esperimenti in questo senso sembrano avvalorare proprio quest’ ultima tesi.
In definitiva certamente irrazionali, ma prevedibilmente irrazionali.

                                                                    Felice Marino
                                                                  aliama1@yahoo.it

sabato 15 ottobre 2011

Bistrot Philo 16a puntata. "L'arte è rivelazione filosofica in oggetti"

Che cos’è l’arte? Quale differenza si pone tra arte e filosofia?
Secondo Friedrich Schelling ( 1775-1854 ) ogni opera d’arte è sia un oggetto concreto sia un prodotto dello spirito. Infatti ogni creazione artistica prevede la presenza sia del mestiere, ossia di un’efficace capacità manipolativa del reale, sia dell’ispirazione, un fattore del tutto immateriale e spirituale. E mentre il mestiere si acquisisce con l’esperienza, l’ispirazione è suggerita dall’inconscio, sembra provenire dall’esterno, dalla natura stessa. L’arte, in conclusione, nasce dalla perfetta confluenza di spirito e materia, conscio ed inconscio, mente e oggetto. Quindi l’intuizione estetica rappresenta una forma di conoscenza altrettanto valida di quella logico-discorsiva. Anzi, per questo suo carattere globale e totalizzante, l’arte si avvicina alla verità più della filosofia stessa. Mentre con la filosofia l’uomo giunge al vero attraverso la ragione, creando o fruendo dell’arte egli vi si avvicina con tutto il suo essere. Per questo l’arte è obiettiva e gode di una validità universale, una capacità di comunicazione superiore a qualsiasi altro strumento intellettuale.
Da L’idealismo trascendentale…”Se l’intuizione estetica non è se non l’intuizione intellettuale divenuta oggettiva, s’intende da sé che l’arte sia l’unico vero ed eterno organo e documento insieme alla filosofia, il quale sempre e continuamente di nuovo attesta quel che la filosofia non può rappresentare esternamente, cioè l’inconscio nell’agire e nel produrre e la sua originaria identità con il conscio.
L’arte appunto perciò è per il filosofo quanto vi è di più alto, poiché essa gli apre il santuario, dove in eterna unione arde come in una sola fiamma ciò che nella natura e nella storia è separato, e ciò che nella vita e nell’azione e nel pensiero deve fuggire se stesso eternamente. La visione che il filosofo si fa artificialmente della natura è per l’arte la visione originaria è naturale”….

Questo il tema della 16a puntata del Bistrot Philo in onda giovedi 27 Ottobre alle 21 su Radioantares. Ogni contributo, di qualunque tipo, è ben accetto.

lunedì 10 ottobre 2011

La civiltà dell'empatia

LA CIVILTA’ DELL’EMPATIA

Cos’e’ l’empatia? Il termine empatia deriva dalla parola tedesca Einfuhlung e si riferiva un tempo alla modalità con cui l’osservatore proietta le proprie emozioni su un oggetto di adorazione o contemplazione, ed è un modo per spiegare come l’individuo giunga ad apprezzare e a godere della bellezza, per esempio, di un’opera d’arte. Ma in seguito è stato sempre più utilizzato per descrivere il processo mentale attraverso cui l’individuo si immedesima in un altro essere vivente, arrivando a conoscerne i sentimenti ed i pensieri. Nel secolo scorso si sviluppò un crescente interesse per il significato e gli effetti dell’empatia sulla coscienza e sullo sviluppo sociale. Questo interesse è esploso nell’ultimo decennio, quando l’empatia è diventata un argomento di grande importanza per molte discipline, dalla medicina alla gestione delle risorse umane.
 Grande è stato l’entusiasmo dei biologi alla notizia della scoperta dei “neuroni specchio”, i cosiddetti “neuroni dell’empatia”, che dimostrano la predisposizione genetica alla risposta empatica e quindi alla socialità in alcuni mammiferi. L’ empatia può estendersi e svilupparsi a partire dal senso di sé, dall’autocoscienza. Più è sviluppato e individualizzato il sé, più è grande la nostra percezione dell’unicità e caducità dell’esistenza, della nostra solitudine esistenziale e dell’infinità di sfide che dobbiamo affrontare per esistere e prosperare. Sono questi nostri sentimenti che ci permettono di provare empatia per sentimenti simili degli altri.
Cosa ci dice questo a proposito della natura umana? E’ possibile che l’uomo non sia intrinsecamente malvagio o egoista e materialista, ma che abbia una natura del tutto diversa, empatica appunto, e che le altre pulsioni che abbiamo considerato primarie (aggressività, violenza, comportamento egoista, atteggiamento di appropriazione) siano in realtà pulsioni secondarie derivate dal reprimere o negare il nostro istinto primordiale? Se così fosse le implicazioni nell’interpretazione del nostro schema sociale  sarebbero enormi e delineerebbero scenari estremamente affascinanti per il futuro. Ne è convinto Jeremy Rifkin (pensatore sociale e consigliere di vari capi di stato in tutto il mondo) ed intorno a questa riflessione si sviluppa il suo ultimo libro dal titolo “La civiltà dell’empatia”.
In effetti psicologi come William Fairbairn, Heinz Kohut, Donald W. Winnicott e Ian Suttie, demolendo la premessa freudiana che vuole il bambino nato per espropriare e distruggere spinto dalla libido, hanno suggerito che è la socialità la pulsione primaria e che libido, aggressione e distruzione costituiscono una risposta compensatoria alla frustrazione del più fondamentale dei bisogni umani. L’idea che il desiderio di un neonato non ancora formato per la propria madre fosse sessualizzato fin dall’inizio della vita e che la sessualizzazione si estendesse poi a tutte le relazioni che l’individuo avrebbe creato in seguito, anche nella vita adulta, pareva a costoro in contrasto con il buonsenso e l’esperienza emotiva della gran parte delle persone. Ian Suttie afferma che è il gioco la più importante attività sociale, quella attraverso cui creiamo comunione, generiamo fiducia reciproca,esercitiamo l’immaginazione e la creatività individuali, sviluppiamo l’empatia. Il gioco è l’ambito nel quale superiamo il senso di solitudine esistenziale e ritroviamo il sentimento di comunione che abbiamo scoperto con il nostro compagno di giochi primordiale: nostra madre. Solo se la madre rifiuta di concedersi al bambino, o ne respinge i gesti d’affetto o i doni, l’angoscia, l’odio, l’aggressività, che Freud confonde con una pulsione primaria, e la volontà di potenza cominciano a manifestarsi.
Se diamo per buona questa premessa, che Rifkin utilizza per rileggere e rivisitare l’intera vicenda umana, appare evidente che l’estensione empatica è l’unica disposizione umana che crea una vera eguaglianza fra le persone. Sono le gerarchie di status a creare le diseguaglianze attraverso la rivendicazione di autorità sugli altri. Una società molto stratificata è generalmente carente di coscienza empatica, perché è segmentata in tali e tanti gradi di status da limitare la capacità del singolo di empatizzare al di fuori del proprio gruppo di appartenenza, sia verso l’alto sia verso il basso della gerarchia. Al contrario nelle società complesse,  nelle quali la differenziazione ed il senso di sé sono ben sviluppati, dove la maggior parte degli individui vive la propria vita quotidiana al di sopra della soglia del benessere, ma i differenziali di reddito sono contenuti, la gente è generalmente più felice, più tollerante, meno invidiosa e più empatica verso gli altri: pensiamo a paesi come Svezia, Norvegia o Danimarca.
E allora in un mondo in cui sempre più persone vivono al di sopra della soglia del benessere ed in cui internet, le nuove tecnologie e le comunicazioni in genere, favoriscono la condivisione della conoscenza, delle esperienze e quant’altro, pare che il genere umano possa avviarsi rapidamente verso quello che Rifkin definisce “il picco dell’empatia globale”. Parrebbe, e probabilmente lo è, una condizione ottimale, se non fosse che siamo arrivati a questo punto attraverso  un irreversibile consumo di risorse ambientali e che questo rischi di produrre un cataclisma in grado di mettere a rischio la nostra stessa sopravvivenza. La risoluzione del paradosso empatia-entropia sarà molto probabilmente il banco di prova definitivo della capacità umana di sopravvivere e prosperare in futuro sulla Terra. Traduco: saremo in grado di approdare finalmente ad una società globale più giusta e solidale abbastanza rapidamente da evitare che il perpetuarsi di una condotta egoista e maldestra (forse male necessario per arrivare a questo punto) ci condanni al disastro?
Secondo Rifkin il raggiungimento dell’obiettivo passerà attraverso una sorta di terza rivoluzione industriale, un grande cambiamento che, come sempre nella storia, coniugherà un nuovo regime energetico con una rivoluzione della comunicazione, creando un ambiente sociale completamente nuovo. La terza rivoluzione industriale poggerà su quattro pilastri. Le forme rinnovabili di energia ( solare, eolica, idroelettrica, geotermica, oceanica e da biomassa ) rappresentano il primo dei quattro pilastri. Il secondo pilastro è rappresentato dal settore delle costruzioni, in futuro infatti ogni edificio sarà anche una sorta di “centrale elettrica”. L’effettiva implementazione dei primi due pilastri della terza rivoluzione industriale ( le energie rinnovabili ed il concetto di edifici come centrali elettriche ) necessiterà del simultaneo intervento di un terzo elemento. Per massimizzare infatti l’utilizzo delle energie rinnovabili e minimizzarne il costo sarà necessario sviluppare metodi di immagazzinamento dell’energia che ne rendano più affidabile e meno intermittente il flusso. Tutto potrebbe ruotare intorno all’idrogeno, da oltre trent’anni infatti le navicelle spaziali sono alimentate da innovative celle a combustibile a idrogeno. Ecco come funziona: le fonti di energia rinnovabili vengono utilizzate per produrre elettricità; l’elettricità a sua volta può essere utilizzata, attraverso un processo di elettrolisi, per scindere l’acqua in idrogeno ed ossigeno. Una società fondata sulle energie rinnovabili quindi sarà possibile nella misura in cui una parte dell’energia prodotta potrà essere stoccata sottoforma di idrogeno. Infine il quarto pilastro consiste nella riconfigurazione elettrica sulla falsariga della rete internet, così da permettere a famiglie ed imprese di produrre la propria energia  e di condividerla con altri. Sistemi che vanno in questa direzione sono in corso di sperimentazione presso società di distribuzione energetica in Europa, Stati Uniti, Giappone, Cina ed altri paesi. Le tecnologie di smart metering ( contatore intelligente ) permetteranno ai produttori locali di vendere più efficacemente la propria energia alla rete di distribuzione principale, oltre che di accedere alla rete per coprire il proprio fabbisogno in caso di necessità, rendendo bidirezionale il flusso dell’elettricità. La rete intelligente a generazione distribuita offrirà anche l’infrastruttura essenziale per realizzare la transizione dal motore a combustione interna alimentato da derivati del petrolio al veicolo elettrico alimentato a idrogeno e connettibile alla rete.
La democratizzazione dell’energia diventerà uno dei punti chiave della nuova visione sociale distribuita. L’accesso all’energia diventerà un diritto sociale inalienabile nell’era della terza rivoluzione industriale. Il Novecento ha visto l’estensione delle garanzie politiche e l’allargamento delle opportunità educative ed economiche a milioni di persone in tutto il mondo. Nel ventunesimo secolo anche l’accesso individuale all’energia diventerà un diritto sociale e umano: ogni essere umano deve avere il diritto e l’opportunità di produrre la propria energia localmente e di condividerla con altri in interreti locali, nazionali e continentali. Per una nuova generazione che sta crescendo in una società meno gerarchica e più interconnessa, la capacità di condividere e produrre la propria energia in una interrete a libero accesso sarà considerata un diritto ed una responsabilità primaria. Il passaggio dalle energie elitarie ( combustibili fossili ed uranio ) alle energie distribuite porterà il mondo fuori dalla geopolitica che ha caratterizzato il ventesimo secolo, per farlo entrare in una nuova politica della biosfera. L’avvento della terza rivoluzione industriale farà molto per allentare le crescenti tensioni sull’accesso ad un’offerta sempre più limitata di idrocarburi e materiale fissile, contribuendo a facilitare una politica della biosfera basata sul senso di responsabilità collettiva per la salvaguardia degli ecosistemi terrestri.
Guardando al futuro Rifkin guarda in particolare all’Europa. Il vecchio sogno americano ed il più recente sogno europeo riflettono infatti due concezioni molto diverse della natura umana. Il primo privilegia l’autonomia dell’individuo e le opportunità a sua disposizione e mette l’accento sull’interesse materiale del singolo come mezzo per garantire sia la libertà personale sia la felicità. Il secondo non disdegna l’iniziativa personale e le opportunità economiche, ma tende ad attribuire altrettanta importanza al miglioramento della qualità della vita nell’intera società. Tale sogno è il riconoscimento del fatto che non si prospera da soli, in un isolamento autonomo, bensì in profondo rapporto con gli altri in uno spazio sociale condiviso. La qualità della vita mette l’accento sul bene comune come importante strumento per garantire la felicità a ogni membro della comunità. Ultimamente la qualità della vita è diventata un importante fattore di ripensamento di numerosi assunti fondamentali della teoria economica del Novecento, a cominciare dalla ossessiva rilevazione del prodotto interno lordo.
Succede allora che se i giovani idealisti un tempo cercavano spazio all’interno dei partiti politici, oggi si rivolgono più probabilmente alle organizzazioni della società civile, nella convinzione che l’accumulazione di capitale sociale ( un altro modo per definire il senso di un’empatia collettiva condivisa ) preceda l’accumulazione del capitale politico. E’ facile vedere come una generazione più collaborativa, abituata al social networking, possa sentirsi maggiormente a proprio agio nelle organizzazioni della società civile, che sono per loro natura cooperative, proiettate verso la gente comune, dinamiche e , perciò, molto più attraenti dei partiti politici e delle istituzioni pubbliche, che tendono a concentrare il potere e a essere più competitive e strumentali nelle interazioni umane. Nella misura in cui le future generazioni acquisiranno maggiori competenze nel creare capitale sociale e nell’estendere l’empatia in ambiti più inclusivi, i partiti politici e la pubblica amministrazione saranno costretti ad adeguarsi e ad assimilare il nuovo modo di pensare collaborativo che già si sta manifestando nella società civile.
In definitiva adattare il modello di mercato ed il modello sociale a una terza rivoluzione industriale distribuita e collaborativa sarà la questione politica più pressante dei prossimi cinquant’anni, quando i governi faranno proprio il nuovo sogno di creare una società fondata sulla qualità della vita in un mondo biosferico. Nell’economia del capitalismo distribuito dove la collaborazione prende il posto della competizione, i diritti di accesso diventano tanto importanti quanto quelli di proprietà, la qualità della vita ha la stessa priorità del successo economico personale, l’empatia trova spazio per svilupparsi e progredire: non è più costretta e limitata dalle gerarchie, dai confini esclusivi e da un concetto di natura umana che colloca l’egoismo, l’interesse particolare e l’utilità al centro dell’esperienza di vita.

                                                                       Felice Marino
                                                                    aliama1@yahoo.it

venerdì 16 settembre 2011

Bistrot Philo 15a puntata. "L'analfabetismo dilagante"

Ciao a tutti, ritorna il Bistrot Philo. In questi mesi di pausa estiva ho raccolto svariati attestati di simpatia verso questa iniziativa e vi ringrazio.
La 15a puntata andrà in onda in diretta su Radioantares giovedi 29 Settembre alle ore 21. Qui di seguito è riportato lo "spunto" di U. Galimberti ( non sarà una costante ) e come sempre vi invito a lasciare una vostra opinione o testimonianza. Potete farlo firmandovi solo con il nome e il luogo da cui scrivete oppure in forma anonima.



L’analfabetismo dilagante

Negli ultimi trent’anni siamo stati traghettati in una fase dove le cose che sappiamo, dalle più elementari alle più complesse, non le dobbiamo necessariamente al fatto di averle “lette” da qualche parte, ma semplicemente di averle “viste” in televisione, al cinema, sullo schermo di un computer, oppure “sentite” dalla viva voce di qualcuno, dalla radio o da un amplificatore inserito nelle nostre orecchie e collegato a un walkman. A questo punto sorgono spontanee le domande: come la trasformazione della strumentazione tecnica modifica il nostro modo di pensare? E ancora: quali forme di sapere stiamo perdendo per effetto di questo cambiamento?
Con l’avvento della scrittura il vedere acquistò un primato rispetto all’udire, ma non lasciò senza cambiamenti la stessa vista che, da visione delle immagini del mondo, dovette imparare a tradurre in significato una sequenza lineare di simboli visivi. Se leggo la parola “cane” la forma grafica della parola e quella fonica non hanno niente a che fare con il cane, e allora la visione dei codici alfabetici comporta un esercizio della mente che la visione per immagini non richiede. Ciò ha comportato un passaggio da un’intelligenza “simultanea” a una forma più evoluta che è quella “sequenziale”.
L’intelligenza simultanea è caratterizzata dalla capacità di trattare nello stesso tempo più informazioni, senza però essere in grado di stabilire una successione, una gerarchia e quindi un ordine. E’ l’intelligenza che usiamo, per esempio, quando guardiamo un quadro, dove è impossibile dire che cosa vada guardato prima e cosa dopo. L’intelligenza sequenziale, che usiamo per leggere, necessita invece di una successione rigorosa e rigida che articola e analizza i codici grafici disposti in linea. Sull’intelligenza sequenziale poggia quasi tutto il patrimonio di conoscenze dell’uomo occidentale. Ma questo tipo di intelligenza, che fino a qualche anno fa sembrava un progresso acquisito e definitivo, oggi sembra entrare in crisi per opera di un ritorno dell’intelligenza simultanea, più consona all’immagine che all’alfabeto. Non a caso si assiste in tutto il mondo a un arresto dell’alfabetizzazione, che da diversi anni non si schioda da quel 47% di analfabeti, per cui sembra si rovesci quel processo, che sembrava irreversibile, che aveva portato l’uomo dall’intelligenza simultanea a quella sequenziale. Radio, telefono e televisione hanno riportato al primato dell’udito rispetto alla vista, e ricondotto la vista, dalla decodificazione dei segni grafici, alla semplice percezione delle immagini che su degli schermi si susseguono, con una conseguente modificazione dell’intelligenza, la quale, da una forma evoluta, regredisce ad una forma più elementare.
Naturalmente “guardare” è più facile che “leggere”, e quindi, cari lettori, apprestiamoci ad essere sempre più rari e, in questo mondo mediatico, anche un po’ strani. L’homo sapiens, capace di decodificare segni ed elaborare concetti astratti, è sul punto di essere soppiantato dall’homo videns, che non è portatore di un pensiero, ma fruitore di immagini, con conseguente impoverimento del capire, dovuto, come scrive Giovanni Sartori in “Homo videns, televisione e postpensiero”, all’incremento del consumo di televisione. E, com’è noto, una moltitudine che “non capisce2 è il bene più prezioso di cui può disporre chi ha interesse a manipolare le folle.
                                                                          
                                                                             U. Galimberti

sabato 20 agosto 2011

La riflessione

LE RAGIONI AMBIENTALI DELLA SUPREMAZIA EUROASIATICA

Qualche mese fa commentando “Collasso” di J.Diamond ho voluto condividere con voi un concetto espresso dall’autore che ritengo di estrema importanza. Riportando la storia di Hispaniola dopo l’arrivo di Colombo nel nuovo mondo e le differenti sorti di Haiti e della Repubblica Dominicana ho voluto evidenziare, prove alla mano, che in condizioni ambientali di partenza simili (in questo caso specifico addirittura identiche) sono gli uomini con le loro culture, le loro scelte e la loro capacità di gestire in maniera lungimirante il proprio habitat a fare la differenza, decretando il successo o meno di un gruppo, di un paese, di una nazione. Ma se le condizioni ambientali di partenza non sono le stesse? Se sono totalmente diverse?
 Le popolazioni euroasiatiche sono oggi indiscutibilmente le padroni del mondo. Le popolazioni nere, precolombiane ed aborigene appaiono ai nostri occhi come espressione di civiltà inferiori, talvolta come nel caso degli aborigeni australiani addirittura primitive. Ma i destini di questi popoli sono stati così diversi a causa delle differenze ambientali, non biologiche, tra i popoli medesimi. E’ la tesi che lo stesso J. Diamond illustra nel suo straordinario libro “Armi, acciaio e malattie”, premio Pulitzer per la saggistica nel 1998. Il testo ever green di Diamond prende in considerazione la storia della presenza dell’uomo su questo pianeta negli ultimi tredicimila anni adducendo un gran numero di casi-prova a vantaggio della sua tesi, ma uno in particolare è secondo me emblematico e riguarda ancora una volta il Nuovo Mondo e cioè l’incontro-scontro tra due civiltà: quella euroasiatica e quella precolombiana.
Era il 16 Novembre 1532 quando a Cajamarca si incontrarono per la prima volta il conquistador spagnolo Francisco Pizzarro alla guida di 168 soldati e l’imperatore inca Atahualpa, circondato da milioni di sudditi e difeso da un esercito di 80000 uomini. Ciò nonostante, pochi minuti dopo averlo incontrato, Pizzarro fece prigioniero Atahualpa, lo tenne in ostaggio per otto mesi, durante i quali si fece consegnare il più spropositato riscatto della storia (circa 80 metri cubi d’oro!), e infine, rimangiandosi ogni promessa, lo fece uccidere. Come fu possibile? Perché non fu Atahualpa a giungere a Madrid per fare prigioniero Carlo V? E’ facile individuare tra le cause prossime la tecnologia navale e militare, l’organizzazione politica, la cultura scritta, i cavalli e le malattie. Ma quali furono le cause remote? Erano di tipo biologico, come si potrebbe frettolosamente affermare o c’e’ dell’altro?
Partiamo allora dall’inizio, precisando che le due civiltà non sono partite in contemporanea, tutt’altro! La presenza umana in Asia risale a circa un milione di anni prima di Cristo, quella in Europa a circa mezzo milione, mentre il continente americano fu colonizzato a partire dalla fine dell’ultima glaciazione, e cioè circa tredicimila anni fa, attraverso lo stretto di Bering. La colonizzazione delle Americhe fu completata entro il 10000 a.C. Da allora, se si esclude una temporanea presenza vichinga a Terranova intorno all’anno mille, le due civiltà restarono in totale isolamento.
Ma il vero punto nodale è la capacità umana di passare da una condizione di cacciatori-raccoglitori a quella di agricoltori, con tutti i vantaggi che ne conseguono. E allora qual’era il materiale di partenza in entrambi i continenti ( considerando l’Eurasia come un’unica massa continentale)? In particolare quali erano le colture e gli animali domesticabili a disposizione?
Diamond rivela dati non sempre noti ai più. Nel continente euroasiatico l’agricoltura venne scoperta all’incirca nel 7000 a.C. nella Mezzaluna Fertile ( l’area che può riferirsi agli attuali Israele, Giordania, Siria, Giordania e Iraq ) e da lì si diffuse rapidamente grazie alla continuità territoriale alle stesse latitudini ed all’assenza di barriere geografiche insormontabili. I cereali mediorientali disponibili erano già molto produttivi allo stato selvatico e furono necessari pochi cambiamenti per renderli domestici, in particolare per il grano e l’orzo. A questi si aggiunsero rapidamente lenticchie e piselli, anch’essi disponibili e facilmente coltivabili. Ora un’alimentazione basata su cereali (carboidrati) e legumi (proteine) fornisce quasi tutti gli ingredienti per una dieta bilanciata. Queste varietà potevano essere immagazzinate senza problemi e ad esse va aggiunto il lino che forniva fibre e grassi vegetali grazie al suo seme che contiene circa il 40 per cento di olio. In un secondo stadio si domesticarono le prime varietà da frutto (olive, fichi, datteri, melograni, uva), mentre in un terzo stadio specie più difficili da coltivare come mele, pere, prugne e ciliege.
Sul versante degli animali delle quattordici specie animali erbivore di grossa taglia domesticate nell’antichità, molte delle quali fondamentali per l’attività agricola, ben tredici erano confinate nell’Eurasia: pecore, capre, buoi, maiali, asini, cavalli, cammelli etc.
In America al contrario le prime civiltà sedentarie nacquero non prima del 1500 a.C. e la situazione era decisamente più grama. Gli attuali Stati Uniti orientali potevano vantare solo l’orzo come cereale, l’America Centrale  un solo cereale (il mais) difficile da coltivare e probabilmente a lento sviluppo ed i fagioli come leguminose, nelle Ande e nella zona amazzonica i fagioli e la patata dolce. Le fibre erano garantite dal cotone e di specie erbivore di grossa taglia domesticate ce n’era solo una sulle Ande: il lama! Ecco quindi che, mentre nel Vecchio Mondo fu quasi sempre praticata una monocultura basata sulla semina a spaglio (cioè quella tecnica in cui i semi vengono gettati e sparpagliati sul terreno) e sull’aratura, possibile grazie alla domesticazione di buoi e cavalli usati come forza motrice, nel Nuovo Mondo, dove nessun animale utile a trainare un aratro fu mai domesticato, i campi dovevano essere arati a mano con zappe e bastoni, e i semi piantati uno a uno in apposite buche. In questo modo più specie potevano convivere nello stesso campo e la monocoltura non era così diffusa. Peraltro l’estensione in senso longitudinale del continente americano (che non garantiva uguali condizioni ambientali alle colture) e barriere geografiche importanti come l’istmo di Panama, la foresta pluviale e le zone desertiche a nord del Messico rallentarono pesantemente se non impedirono del tutto la diffusione delle suddette colture in aree potenzialmente molto fertili come quelle dell’attuale California o dell’Argentina.
Appare evidente allora che le differenze furono diretta conseguenza delle diversità ambientali e non di un qualche limite della popolazione indigena, che all’arrivo di specie migliori si mise subito a sfruttarle, intensificando la produzione e permettendo vere esplosioni demografiche. Ma tornando a Pizzarro ed Atahualpa , fatto salvo il vantaggio militare garantito dai cavalli, cosa c’entra tutto questo con la superiore tecnologia navale e militare, con la superiore organizzazione politica, la cultura scritta ed infine le malattie? Moltissimo. Vediamo perché.
Una prima conseguenza riguarda le malattie. La lunga convivenza con il bestiame domesticato ha reso la popolazione euroasiatica progressivamente resistente a molte patologie evolutesi a partire da infezioni degli animali, basti pensare al vaiolo, alla tubercolosi, alla peste, al morbillo, al colera, alla stessa influenza. L’impatto in particolare del vaiolo sul  Nuovo Mondo fu a dir poco devastante. Gli otto milioni di abitanti di Hispaniola nel 1492 sparirono tutti entro il 1535. Nel 1618, un secolo dopo l’arrivo di Cortés sulla terraferma, i venti milioni di abitanti del Messico precolombiano erano diventati poco più di un milione e mezzo. Una sorte simile toccò anche a Pizzarro quando sbarcò sulle coste del Perù. Il vaiolo era già arrivato cinque anni prima uccidendo moltissimi inca, tra cui l’imperatore Huayna Capac e l’erede al trono designato. Ne seguì una dura guerra di successione tra gli altri due figli del sovrano, Huascar ed Atahualpa, vinta da quest’ultimo a prezzo però di grosse lacerazioni, che indebolì l’impero facilitando peraltro l’azione del Conquistador spagnolo.
Una seconda conseguenza riguarda in generale il fatto che l’agricoltura, oltre a permettere la nascita della vita sedentaria e quindi l’accumulazione di surplus alimentari e di beni, fu decisiva anche nello sviluppo della tecnologia. Fu possibile accumulare beni intrasportabili e per la prima volta alcune società poterono diventare economicamente differenziate  mantenendo una classe di specialisti non dediti alla produzione di cibo.  Come già detto però, oltre al vantaggio della partenza anticipata, l’Eurasia ebbe dalla sua anche la maggiore facilità con cui, come per piante ed animali, idee e tecniche poterono spostarsi nel suo territorio. La scrittura ad esempio nacque in modo indipendente solo nella Mezzaluna Fertile, in Cina ed in Messico, ma, mentre dalle prime due aree si diffuse rapidamente nell’intero continente, da quest’ultimo non raggiunse mai il Perù. Allo stesso modo gli arabi inventarono o perfezionarono cose come il mulino a vento, la trigonometria, la vela triangolare, importarono dalla Cina la carta e la polvere da sparo trasmettendo il tutto in Europa. Al contrario la ruota fu inventata come giocattolo in Messico, vi rimase tale e non raggiunse mai l’impero inca, così come il lama, potenzialmente utile alla primordiale agricoltura messicana come animale da traino non fu mai conosciuto dagli aztechi. Le barriere ecologiche e naturali del NuovoMondo impedirono che i tre centri principali del Mesoamerica, degli Stati Uniti orientali e delle Ande-Amazzonia venissero sostanzialmente in contatto.
Lo stesso discorso vale anche per l’organizzazione politica e militare. La nascita dell’agricoltura infatti, garantendo l’aumento della popolazione e la nascita di élites non produttive, è alla base della nascita di società economicamente complesse, socialmente stratificate, politicamente centralizzate.
Dunque l’Eurasia aveva grandi vantaggi rispetto all’America per quello che riguardava l’agricoltura, le malattie, la tecnologia (armi incluse), l’organizzazione della società e la scrittura. I fatti di Cajamarca, a questo punto, e quello che ne seguì appaiono semplicemente una fin troppo naturale conseguenza.


                                                                          Felice Marino

domenica 19 giugno 2011

La riflessione

UN’ISOLA, DUE POPOLI, DUE STORIE: LA REPUBBLICA DOMINICANA ED HAITI
ISTRUZIONI PER L’USO

Recentemente ho avuto modo di leggere un libro che ho trovato molto, molto interessante. L’autore è J. Diamond, docente all’università della California, ed il titolo è “Collasso. Come le società scelgono di vivere o morire”.
Lo spettacolo delle rovine di antiche civiltà ha in sé qualcosa di tragico. Popoli un tempo ricchi e potenti sono scomparsi, magari nel volgere di pochi anni, lasciando solo qualche masso a testimonianza. Diamond cerca di capire come i collassi del passato abbiano potuto verificarsi e si chiede se la società contemporanea sia in grado di imparare la lezione, evitando disastri analoghi in futuro, ed in questo una gestione più o meno oculata delle risorse ambientali pare giocare un ruolo fondamentale. Il punto di partenza è il racconto delle storie di chi non ce l’ha fatta: gli abitanti dell’isola di Pasqua, i maya, gli anasazi, per passare poi a storie meno tragiche come quella dell’Islanda o del Giappone, quindi a storie dall’esito incerto come quelle della Cina o dell’Australia. Un capitolo però mi ha colpito profondamente, perché emblematico di come istituzioni e governi, quindi gli uomini, possano produrre esiti totalmente diversi. Si tratta della storia e dell’attualità di Hispaniola, l’isola scoperta da Cristoforo Colombo nel 1492 durante il suo primo viaggio nelle Americhe, che oggi è divisa tra due stati: Haiti e la Repubblica Dominicana.
Diamond sottolinea come, chi c’è stato ha potuto verificarlo di persona, il confine tra i due stati visto dall’alto sembri una ferita, una linea tracciata in modo arbitrario che divide nettamente due mondi: ad est (la parte dominicana) verdi boschi e prati, a ovest (la parte haitiana) terra brulla e riarsa (il 28% del territorio dominicano è ancora coperto da foreste, contro l’1% di Haiti). Eppure in origine tutta l’isola era coperta da foreste.  Haiti è affollata, molto più della Repubblica Dominicana: copre un terzo dell’isola ma ha quasi i due terzi della popolazione totale. La crescita demografica e i tassi d’infezione da AIDS sono tra i più alti del mondo. Anche la Repubblica Dominicana è un paese in via di sviluppo, ma a paragone di Haiti è un paradiso. La densità demografica e il tasso di crescita della popolazione sono più bassi, il reddito pro-capite è cinque volte più alto. Perché i due paesi hanno avuto destini così diversi? In parte per via di piccole differenze ambientali, ma soprattutto a causa della storia, dell’identità, della mentalità, delle istituzioni e dei governi dei due rispettivi popoli.
Le differenze ambientali erano rilevanti ma non decisive. La parte dominicana dell’isola riceve più pioggia e il tasso di crescita della vegetazione è più rapido. Sul suo territorio si trovano le montagne più alte, i fiumi più importanti e le pianure più estese. Il suolo è di migliore qualità, la valle del Cibao è una delle aree più fertili del mondo. Haiti è più arida ed ha una percentuale più alta di territorio montuoso. Le zone pianeggianti adatte all’agricoltura intensiva sono molto più limitate, il suolo è meno fertile e soprattutto ha una minore capacità di recupero.
Nonostante la parte haitiana fosse la meno dotata da un punto di vista ambientale fu la prima ad essere sfruttata per finalità agricole e la prima ad arricchirsi sotto il controllo dei francesi, subentrati nel frattempo agli spagnoli. Purtroppo però lo sfruttamento anticipato  ed intensivo, dovuto anche al notevole aumento demografico prodotto dai tanti schiavi di colore fatti affluire dall’Africa francofona, inferse danni irrimediabili alla fertilità del suolo ed a ciò si aggiunse una rapidissima deforestazione per l’esportazione di grandi quantità di legno, oltre che nel tentativo di recuperare terreno per altri fini. Risultato? Già verso la metà del XIX secolo le pianure e le colline haitiane erano praticamente prive di alberi. Nella Repubblica Dominicana, a lungo colonia spagnola marginale e trascurata dalla madrepatria, l’impatto ambientale e l’aumento demografico furono decisamente più contenuti.
Ma presto anche le economie presero strade diverse ed imprevedibili. La costituzione haitiana proibiva agli stranieri di possedere terre e fare investimenti nell’isola, inoltre la maggior parte degli haitiani possedeva un fazzoletto di terra che usava per sfamarsi, impedendo però in questa condizione una produzione su larga scala destinata alla vendita sui mercati europei. I dominicani, al contrario, non proibivano immigrazioni e investimenti stranieri, si formarono latifondi ed il commercio con l’estero fu agevolato in molti modi. Diversa fu l’immagine internazionale delle due nazioni. Agli occhi degli europei, la Repubblica dominicana era una società di lingua spagnola, con una significativa popolazione bianca e aperta all’esterno e al commercio, mentre Haiti era una società africana di lingua creola formata da ex schiavi e ostile agli stranieri.
Anche le dittature che entrambi i paesi hanno vissuto nella seconda metà del Novecento hanno allargato il solco tra di essi, ad Haiti quella di Duvalier mentre nella Repubblica Dominicana quella di Trujillo prima e Balaguer dopo. Questi ultimi due cercarono (anche se le motivazioni non erano nobili: volevano intascare una fetta più grande di ricchezze) di migliorare l’economia e modernizzare il paese, il primo al contrario non fece proprio nulla acuendo una situazione già disperata. Balaguer in particolare si rivelò un vero paladino dell’ambiente, ampliò il sistema delle riserve naturali ed istituì i primi parchi costieri intuendone l’enorme valore ed il potenziale turistico. Ciò non deve sorprendere per un dittatore: Adolf Hitler amava i cani e si lavava regolarmente i denti, questo non significa che dobbiamo smettere di fare entrambe le cose.
Tutte queste cose messe insieme hanno prodotto il risultato che è sotto gli occhi di tutti: pur essendo sulla stessa isola la Repubblica Dominicana è una delle realtà centro-americane più vivaci, mentre Haiti è un paese sull’orlo del collasso (il recente sisma ha prodotto un ulteriore dramma nel dramma), tanto che chi visita il paese in genere ritorna con la convinzione che non ci siano speranze per il futuro.
Una storia lontana e di scarso appeal? Non credo. E’ uno dei tanti esempi (ancora più emblematico perché generatosi a partire da un comune punto d’inizio) di quanto sia fragile il nostro ecosistema e di quanto siano impattanti su di esso le attività umane, di come un atteggiamento di chiusura verso l’esterno o di scarsa managerialità possano progressivamente impoverire una società. Ma questo caso dimostra soprattutto con chiarezza che il destino di una società spesso è nelle sue stesse mani e dipende essenzialmente dalle sue scelte.

                                                                                             Felice Marino

domenica 5 giugno 2011

Bistrot Philo 14a puntata. "La morte di Dio"

Ciao a tutti, riprende il Bistrot Philo. Ecco lo spunto della 14a puntata che andrà in onda giovedi 9 Giugno alle ore 2200 su Radioantares. Come sempre sono graditi i vostri contributi.

LA MORTE DI DIO
Dove se ne è andato Dio? - gridò l’uomo folle rivolto a molti di quelli che non credevano in Dio. – Ve lo voglio dire! L’abbiamo ucciso, voi e io. Ma come abbiamo fatto?” Friedrich Nietzsche, La gaia scienza

Lo spunto di U. Galimberti
Intorno a Dio c’e’ poco da dire. Fede e mancanza di fede sono adesioni dell’anima che vengono prima di tutti i ragionamenti e resistono a tutti i ragionamenti. Qualcosa possiamo dire invece intorno alla morte di Dio annunciata da Nietsche, secondo il quale Dio è morto perché oggi gli uomini vivono e si comportano prescindendo dalla sua esistenza, costruendo un mondo che si lascia comprendere anche senza ricorrere all’idea di Dio.
Non è stato sempre così. Nel Medioevo, per esempio, dove la letteratura parlava d’Inferno, Purgatorio e Paradiso, dove l’arte era arte sacra, dove persino la donna era donna-angelo, nulla di quella cultura poteva essere compreso se si prescindeva dall’idea di Dio. Quindi Dio esisteva e faceva mondo. Oggi il nostro mondo può benissimo essere compreso senza ricorrere all’idea di Dio, mentre difficilmente sarebbe leggibile senza l’idea di “mercato” o l’idea di “tecnica”. Oggi quindi Dio è morto. Intorno al suo nome non accade un mondo, perché il mondo che viviamo non ha bisogno dell’idea di Dio per essere compreso. Altri sono i suoi referenti.
Per questo dico che al di là dell’apparente risveglio religioso, fatto più di effetti mediatici e di speculazioni politiche, le religioni si stanno avviando inesorabilmente verso la loro estinzione, non per l’inarrestabile processo di secolarizzazione che caratterizza la nostra cultura, e neppure perché con le conquiste della scienza e della tecnica l’uomo può ottenere da sé quel che un tempo implorava da Dio, ma perché l’età della tecnica ha modificato la nostra psiche, abituandola a un tempo contratto che è l’intervallo che intercorre tra i mezzi e i fini.
Un mezzo è un mezzo se adeguato al fine che vuol raggiungere, perché se è inadeguato, non è più un mezzo. Allo stesso modo un fine è un fine, e non un sogno, se i mezzi per conseguirlo sono disponibili oggi e non chissà quando. Questo tempo contratto tra il recente passato e l’immediato futuro, che è il tempo proprio dell’età della tecnica, sopprime, dentro di noi, il tempo escatologico che prevede che, alla fine (del mondo), si realizzi quello che all’inizio era stato annunciato. E siccome la religione si fonda sul tempo escatologico, se questo non ha più riscontro e risonanza nella nostra psiche, la religione muore, perché non più sostenuta da quella dimensione temporale (l’escatologia) di cui si alimenta. Resta il problema del “senso della vita” a cui le religioni offrivano risposte. Perciò l’umanità vaga senza orizzonte, ma senza neppure più la disponibilità di affidarsi a quelle che già Eschilo chiamava “cieche speranze”.

martedì 17 maggio 2011

La nota politica di Felice

Diversi amici mi hanno chiesto un'opinione sull'esito delle elezioni amministrative del 16 e del 17 Maggio. Approfitto allora per una volta del blog per esplicitare un mio pensiero senza censure, facendo però una doverosa premessa: sono un elettore del centro-sinistra e sono stato nel recente passato per circa tre anni il segretario politico del PD nel paesino dove abito.
Ovviamente l'attenzione è stata catalizzata dai quattro copoluoghi di regione: Milano, Torino, Bologna e Napoli. Come sapete Torino e Bologna sono andate al centro-sinistra mentre Milano e Napoli andranno al ballottaggio. A me pare che Torino e Bologna siano poco indicative, nel senso che a Torino un candidato molto "forte" come Fassino (nella scia dell'ottima gestione pregressa di Sergio Chiamparino) ed a Bologna un signor nessuno in una roccaforte storica abbiano avuto gioco facile. Molto interessante invece politicamente il dato di Napoli e Milano. A Napoli il candidato De Magistris dell'IDV andrà al ballottaggio con il candidato del centro-destra Lettieri dopo aver superato il candidato del PD, figlio della gestione uscente della Iervolino. A Milano addirittura Pisapia di SEL sfiora la vittoria al primo turno contro la Moratti che partiva sicuramente con il favore dei pronostici. In entrambi i casi risalta l'affermazione di candidati del centro-sinistra non appartenenti al PD e fortemente connotati come persone oneste ed anche un pò fuori dal gioco delle solite lobby. Che lettura dare?
1) la rottura tra Fini e Berlusconi ed i vari scandali a sfondo sessuale del Premier hanno indebolito il PDL ed il suo leader riflettendosi sulla tendenza generale.
2) Il rafforzamento conseguente dell'asse Berlusconi-Lega nel governo del paese ha esposto maggiormente la Lega in quanto forza di governo e l'ha indebolita. Difficile continuare a recitare con il proprio elettorato la parte dei duri e puri, di quelli fuori dal "mazzo" quando si è costretti all'appiattimento sulle posizioni del Premier rispetto all'infinita guerra con i magistrati o alle leggi ad personam, alla guerra in Libia ed alla gestione del problema degli immigrati, alla privatizzazione dell'acqua o al nucleare.
3) Il PD ne esce ancora più indebolito, costretto a sostenere candidati non propri. Pare evidente che l'elettorato gradisca sempre meno i candidati "calati dall'alto" e con scarso appeal politico. Urgono forze nuove, urge qualità, ma c'è veramente poco all'orizzonte. Soprattutto il PD si trova di nuovo a dover sciogliere il nodo delle alleanze rispetto alle prossime politiche riassumibile nella differente posizione di Prodi e Cacciari ad esempio: un nuovo Ulivo senza il Terzo Polo oppure un'alleanza con il Terzo Polo senza le posizioni radicali di SEL e magari IDV? Io, per chi mi conosce non è un mistero, mi sento più vicino alle posizioni di Cacciari. Un nuovo Ulivo, peraltro come il vecchio, potrebbe vincere solo con un centro-destra diviso. Bisogna pensare a soluzioni diverse e soprattutto praticabili, in sostanza non và dimenticato che, in attesa dei ballottaggi, il centro-sinistra ha vinto...ma senza merito, grazie ad un'autorete degli avversari...l'Italia resta fondamentalmente un paese moderato.

                                                                                           Felice Marino

venerdì 29 aprile 2011

Bistrot Philo 13a puntata. "I figli delle coppie omosessuali"

Ecco lo spunto della XIIIa puntata del Bistrot Philo che andrà in onda giovedi 5 Maggio alle ore 2200. Lasciate un commento se credete.


I FIGLI DELLE COPPIE OMOSESSUALI

Recenti indagini, condotte in America da istituti psichiatrici di ricerca, hanno constatato che bambini cresciuti da coppie omosessuali non presentano disturbi di personalità più significativi rispetto a bambini cresciuti da coppie eterosessuali. Sembra infatti che più dei processi d’identificazione con le figure genitoriali contino, per una crescita equilibrata, le condizioni di vita e soprattutto l’amore.
Per quanto poi riguarda il processo d’identificazione, occorre dire che si tratta di una ipotesi psicoanalitica, secondo la quale il bambino acquisisce la sua “identità” modellandosi sul genitore dello stesso sesso e la sua capacità di “relazione” desiderando il genitore del sesso opposto. Questa teoria, a tutti nota come “complesso di Edipo”, Freud l’ha limitata all’organizzazione della struttura familiare come si è costituita in Occidente, chiamando “eso-edipiche” le condizioni di crescita in altre culture, soprattutto africane, dove i bambini, maschi o femmine che siano, vengono affidati fin dalla nascita al gruppo delle donne, per poi concedere ai maschi, capaci di superare le prove iniziatiche che talvolta mettono a rischio la vita, l’ingresso nella comunità degli adulti. Anche questa procedura “eso-edipica” non impedisce la costruzione di una identità sessuale, pur in assenza di una crescita all’interno di una coppia eterosessuale.
Se la coppia eterosessuale fosse davvero una garanzia per l’identità sessuale futura dei figli, non ci sarebbero omosessuali tra quanti sono cresciuti con un padre e una madre come il nostro costume familiare prevede.
E che dire poi dei bambini cresciuti negli orfanotrofi, dove non ci sono né padri, né madri, e talvolta neppure troppe cure e attenzioni? E di quanti perdono il padre e la madre, o entrambi, in tenera età, o che, a seguito di separazioni e divorzi, vivono con la sola madre o il solo padre, o tra padri e madri che non smettono di litigare e di usare reciprocamente ricatti e violenze?
Forse l’identità si costruisce, oltre che con i processi di identificazione, anche e soprattutto a partire dai contesti d’amore e di cura in cui il bambino viene a trovarsi. E non credo che l’amore e la cura siano prerogative esclusive delle coppie eterosessuali, che spesso, per effetto di separazioni e divorzi, non esitano a consegnare i figli ad altre figure genitoriali, rendendo non poco complicato il processo d’identificazione.
L’uomo è costruito in modo meno meccanicistico di quanto alcune teorie psicoanalitiche vogliono farci credere. Le sue capacità di adattamento superano di gran lunga gli schemi che psicologi e pedagogisti prevedono. Di una sola cosa, non solo i bambini, ma tutti quanti noi, non possiamo fare a meno per vivere. E questa cosa si chiama amore, da qualsiasi persona provenga. Le distinzioni vengono dopo, ma molto dopo.
                                                                                             U. Galimberti