Tutti sappiamo che l’amore materno non è mai solo amore. Ogni madre è attraversata dall’amore per il figlio, ma anche dal rifiuto del figlio. Talvolta il rifiuto ha il sopravvento sull’amore, e allora siamo a quei casi di infanticidio, il cui ritmo inquietante più non ci consente di relegare queste tragedie nella casistica psichiatrica e qui liquidarle nel perfetto stile della rimozione.
Nella donna, infatti, molto più marcatamente che nel maschio, si dibattono due soggettività antitetiche, perché una vive a spese dell’altra. Una soggettività che dice “io” e una soggettività che fa sentire la donna “depositaria della specie”.
Il conflitto tra queste due soggettività è alla base dell’amore materno, ma anche dell’odio materno, perché il figlio, ogni figlio, vive e si nutre del sacrificio della madre: sacrificio del suo tempo, del suo corpo, del suo spazio, del suo sonno, delle sue relazioni, del suo lavoro, della sua carriera, dei suoi affetti e anche amori, altri dall’amore per il figlio. Se poi il figlio è figlio dell’illegalità, del tradimento, della povertà, della paura, della sprovvedutezza, allora non solo il conflitto tra le due soggettività, ma anche l’impossibilità di prefigurare un futuro per il figlio scava nell’inconscio della madre quel che non vuol vedere e constatare ogni giorno: che il proprio figlio è troppo distante, troppo dissimile, dal proprio sogno o dal proprio desiderio. E’ aquesto punto che l’ambivalenza amore-odio, comune a tutte le madri, si potenzia e chiede una soluzione.
Con questo non intendiamo giustificare il gesto infanticida, ma invitare ad accudire le madri perché, per talune di loro, forse è troppa la metamorfosi del loro corpo, la rapina del loro tempo, l’occupazione del loro spazio fisico ed esteriore, interiore e profondo. E quando l’anima è vuota e nessuna carezza rassicura il sentimento, lo consolida e lo fortifica, il terribile è alle porte, non come atto inconsulto, ma come svuotamento di quelle risorse che fanno argine all’amore separandolo dall’odio, allo sguardo sereno che tiene lontano il gesto truce.
La natura contamina questi estremi, e la madre, che genera e cresce nell’isolamento e nella solitudine, conosce quanto è fragile il limite. Non sa più cosa accade dentro di lei, e le sue azioni si compiono senza di lei. Per questo, natura vuole che a generare si sia in due, non solo al momento del concepimento e del parto, ma soprattutto nel momento dell’accudimento e della cura. Dove a essere accudita, prima del figlio che segue la sua cadenza biologica, è la madre, che ha messo a disposizione prima il suo corpo, poi il suo tempo, poi il suo spazio esteriore ed interiore, infine l’ambivalenza delle sue emozioni, che camminano sempre sfiorando quel confine sottile che separa e a un tempo congiunge la vita e la morte, perché così vuole la natura nel suo aspetto materno e crudele.
Un invito ai padri: tutelare la maternità nella sua inconscia e sempre rimossa misconosciuta crudeltà. Questa tutela ha un solo nome: “accadimento”, per sottrarre le madri a quella luce nera e così poco rassicurante che fa la sua comparsa nell’abisso della solitudine.
U. Galimberti
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