venerdì 3 dicembre 2010

Bistrot Philo. 5a Puntata. "Tradimento ed individuazione". La risposta di U. Galimberti.

Se il tradimento non è solo un esercizio di sessualità a bassa definizione, io penso che abbia una sua dignità e soprattutto che non debba essere giudicato da figli adulti che, nel condannarlo, pensano più alla loro quiete perduta che al percorso anche drammatico in cui chiunque di noi, a un certo punto della sua vita, può venirsi a trovare.
Tradire un amore, tradire un amico, tradire un’idea, tradire un partito, tradire persino la patria significa infatti svincolarsi da un’appartenenza, creare uno spazio d’identità non protetta da alcun rapporto fiduciario, e quindi in un certo senso più autentica e vera.
Nasciamo infatti nella fiducia che qualcuno ci nutra e ci ami, ma possiamo crescere e diventare noi stessi solo se usciamo da questa fiducia, se non ne restiamo prigionieri, se a coloro che per primi ci hanno amato e a tutti quelli che dopo di loro sono venuti, un giorno sappiamo dire: “Non sono come tu mi vuoi”.
C’e’ infatti in ogni amore, da quello dei genitori, dei mariti, delle mogli, degli amici, degli amanti a quello delle idee e delle cause che abbiamo sposato, una forma di possesso che arresta la nostra crescita e costringe la nostra identità a costituirsi solo all’interno di quel recinto che è la fedeltà che non dobbiamo tradire. Ma in ogni fedeltà che non conosce il tradimento e neppure ne ipotizza la possibilità c’e’ troppa infanzia, troppa ingenuità, troppa paura di vivere con le sole nostre forze, troppa incapacità di amare se appena si annuncia un profilo d’ombra. Eppure senza questo profilo d’ombra, quella che puerilmente chiamiamo fedeltà è l’incapacità di abbandonare lidi protetti, di uscire a briglia sciolta e a proprio rischio verso le regioni sconosciute della vita che si offrono solo a quanti sanno dire per davvero addio. E in ogni addio c’e’ lo stigma del tradimento e insieme dell’emancipazione. C’e’ il lato oscuro della fedeltà che però è anche ciò che le conferisce il suo significato e che la rende possibile.
Fedeltà e tradimento devono infatti l’una all’altro la densità del loro essere che emancipa non solo il traditore ma anche il tradito, risvegliando l’un l’altro dal loro sonno e dalla loro pigrizia emancipativa, impropriamente scambiata per amore. Gioco di prestigio di parole per confondere le carte e barare al gioco della vita.
Quando finisce un amore, infatti, non soffriamo tanto del congedo dell’altro, quanto del fatto che, congedandosi da noi, l’altro ci comunica che non siamo granchè, che altri sono preferibili a noi. In gioco non è tanto la relazione, quanto la nostra identità, il nostro valore che la relazione confermava e il congedo disconferma. In un certo senso l’amore è uno stato di passività ( per questo si parla di passione ), dove, per il tempo che siamo innamorati, non affermiamo la nostra identità, ma, comodamente, la riceviamo dal riconoscimento dell’altro. Quando l’altro se ne va restiamo senza identità, ci sentiamo nessuno. Ma è nostra la colpa di esserci disimpegnati da noi stessi, di esserci abbandonati, di aver fatto dipendere la nostra identità dall’amore dell’altro.
E allora, dopo il congedo, il lavoro non è di cercare di recuperare la relazione con l’altro, ma di recuperare quel noi stessi che avevamo affidato all’altro, al suo amore, al suo riconoscimento, al suo apprezzamento. C’eravamo disimpegnati da noi, dimenticati di noi e il tradimento ci riporta bruscamente al compito di riprenderci tra le mani dopo il nostro abbandono.
Ma una cosa ricordiamoci sempre: nel tradimento, ciò di cui soffriamo non è il congedo dell’altro, ma la perdita di noi che avevamo affidato all’altro. Sembra infatti che la legge della vita sia scritta più nel segno del tradimento che in quello della fedeltà, forse perché la vita preferisce di più chi ha incontrato se stesso e sa chi davvero è, rispetto a chi ha evitato di farlo per stare rannicchiato in un’area protetta dove il camuffamento dei nomi fa chiamare fedeltà e amore quello che in realtà è insicurezza o addirittura rifiuto di sapere chi davvero si è, per il terrore di incontrare se stessi, un giorno almeno, prima di morire, con il rischio di non essere mai davvero nati.
U. Galimberti

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